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Fedele Romani

Colledara

14. La vita a Colledara

 

13. Il ballo  
 

Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi

donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876

 

14. La vita a Colledara

Io ora non vivo più; da molti anni, a Colledara; e, nelle brevi e rare visite che mi riesce di fargli, sono più attratto dalle voci del passato, le quali mi chiamano d'ogni parte, che dalle novità dei fatti presenti. Ma non c'è bisogno di una lunga e attenta osservazione per notare alcuni profondi mutamenti che, sebbene con molta lentezza, si vanno manifestando nei luoghi, nelle cose e nelle persone. Le belle strade tortuose e fantastiche di campagna, fiancheggiate da vecchie querce pensose, piene di mistero e di rumorosi nidi di uccelli, sono via via surrogate da più comode, ma più brutte strade carrozzabili, che tagliano e profanano il pudico e verde segreto dei campi e tanti miei cari ricordi: guastano la vita passata e non affermano ancora la nuova; perchè, non facendo ancora parte d'una rete attiva e potente, tacciono sonnacchiose, piene d'erbacce, che ne rendono incerte le linee, e di grossi ciottoloni; e sembrano costruite, più che a sodisfare un nuovo e vero bisogno di commercio, per un gretto spirito di uguaglianza, che si fosse proposto di deturpare, senza ragione, con le abitudini e le forme della città, la libera pace dei campi, e di sostituire l'opera della servile acacia, albero nato per la carriera dell'impiego, alla regale, libera opera della quercia. Anche le case, mentre prima avevano quasi tutte la faccia ruvida e scura ed erano caratterizzate, in modo particolare, dalla scala esterna e dal ghefio, una specie di lunga terrazza di legno, ora vanno prendendo aspetto più cittadino; e spesseggiano le facciate bianche, giallastre, o azzurrognole, e, anche, le allegre persiane verdi; e si fanno più comuni le scale interne. San Paolo, il mio vecchio San Paolo, non si riconosce più. Esso ha perduto quel suo aspetto semplice ed austero di buon vecchione; è stato tutto imbiancato, incorniciato, profanato; e pare un poveruomo che, a settanta o ottant'anni, preso a un tratto da subitanea pazzia, si fosse mascherato e truccato da giovanotto, e, col fiore all'occhiello, si fosse messo a fare all'amore. Altari spostati, porte murate; e poi, bianco, bianco abbagliante da per tutto; e, su quel bianco nuovo nuovo, quei vecchi Altari, di legno lavorato e dorato del seicento, stanno come si può credere, e non fanno che lamentarsi e mormorare.

E, non meno dei luoghi e degli edifizii, si son venute naturalmente modificando le persone.

Fin dalla mia fanciullezza, nella piccola borghesia dei miei villaggi, si notava, e l'abbiamo potuto già rilevare, un attivo germe di distruzione. Le poche ricchezze messe insieme da una o più generazioni antecedenti, composte di assidui lavoratori di campi e di piccoli negozianti, si facevano, ogni giorno più, inadeguate ai bisogni nelle mani dei figli che, credendosi a un tratto divenuti signori e acquistate per mezzo di matrimonii delle parentele più o meno cospicue, cominciavano a vergognarsi di quel lavoro da cui era nata l'agiatezza, e, o si credevano in diritto di oziare e perdere le giornate in piccole faccende sfaccendate, o si davano a professioni signorili che non potevano venir sempre esercitate convenientemente per la natura dei luoghi, e rimanevano, quindi, infruttuose. E l'agricoltura intanto languiva; e i campi non rendevano neppur la quinta parte di quello che avrebbero potuto. E, come pagar le nuove tasse che erano assegnate sulla base di rendite del tutto immaginarie? Odio feroce contro la nuova forma di governo e miseria crescente; e, per mancanza di commercio, spesso s'aveva la miseria che diremo ricca, la quale è forse una delle più crudeli forme di essa: il fondaco pieno e la tasca vuota.

Ma, nonostante questi tarli che rodevano sordamente la vita delle piccole famiglie borghesi; quella vita, nel primo tempo della mia esistenza, procedeva ancora, almeno in vista, con fede viva negli usi, nei riti trasmessi dagli avi, e nel destino di un'eterna durata: essa aveva ancora carattere e linee determinate e precise; ognuno l'accettava come la sola forma di vita naturale e necessaria, senza aspirare, con tormentosa e vana insistenza, a un modo di vivere di natura diversa.

Ma il costante squilibrio tra l'entrata e l'uscita, la sproporzione tra la vita che si sarebbe dovuto fare e quella che in realtà si faceva, ha, a lung'andare, prodotto, in modo profondo e manifesto, i suoi effetti letali; e oggi basta dare attorno un'occhiata per veder come su quasi tutte quelle piccole famiglie di media agiatezza sia passato, sto per dire, un furioso vento di distruzione; molte delle case un tempo fiorenti di vita e di prosperità, di belle ragazze e di fieri giovinetti, ora sono chiuse e cadenti, o trasformate in pagliai. E gli abitanti? O hanno cercato miglior fortuna in lontani paesi, o sono tornati a quella zappa, madre un giorno della loro ricchezza, e poi guardata con vergogna ed onta. E le poche famiglie che hanno avuto la forza di resistere più a lungo alla lotta e sono rimaste ancora in piedi, hanno cambiato profondamente il sistema di vita. Al pari di tutte le cose che vanno in dissoluzione, la loro vita non ha più un vero e proprio carattere; è perduta la fede nei costumi e nei riti tradizionali, è perduta la fede nella durata stessa di quella vita. Essa ha assunto un aspetto, sto per dire, provvisorio e precario, come se da un momento all'altro dovesse arrestarsi; e, in certa maniera, pare la vita di persone attendate e in viaggio; e manca in essa l'ordine e le linee precise di un organismo che fiorisce nel pieno possesso di quella forma che più gli conviene. Prima, si menava una vita che non sempre era proprio quella che si sarebbe potuto o dovuto menare, e ciò preparava lentamente la dissoluzione: oggi si mena una vita che, oltre a non esser proprio quella che si dovrebbe menare, non è neppur quella che si vagheggia, e questo è causa di continue angosce, di continui imbarazzi. Nel tempo passato, si praticava, come abbiam visto, largamente l'ospitalità: le famiglie cosiddette civili non si vergognavano di mostrare agli amici l'intimità della loro vita, e li accoglievano volentieri alla loro tavola e avevano per loro una stanza sempre pronta, rozza forse, ma pulita, in qualunque momento essi fossero arrivati. Oggi il pensiero dell'ospitalità fa paura e la si esercita con dolore.

Da una parte, è vero, ciò deriva dalle condizioni economiche che vanno sempre più abbassandosi; ma la causa principale si è che ognuno ha vergogna di vivere come vive; si vergogna della sua tavola, della sua tovaglia, dei suoi bicchieri, delle sue pietanze; si vergogna del suo letto; e ognuno vorrebbe far credere d'essere un signore e di vivere da signore, mentre la miseria giunge fino al collo. Bisogna vedere gl'incidenti comici e dolorosi a cui dà luogo questa curiosa condizione d'animo.

Arrivano a un villaggio una, due, o più persone a cavallo e lo mettono tutto a rumore coi picchi e gli sdruccioli delle zampe ferrate sui ciottoli; parrebbe che la tranquilla popolazione dovesse essere richiamata da quel diavolio tutta alle porte e alle finestre; e corre, infatti, alle porte e alle finestre la gente povera, che, sicura come Amiclate, non teme neppur la voce di Cesare; ma le finestre delle case più agiate rimangono chiuse o deserte, e non si sente un respiro: paiono tutti morti: tanta è la paura di dover fare un invito! Spesso, però, tra una stecca e l'altra di quelle persiane non sarebbe difficile, a un occhio scrutatore, scoprire qualche paio di pupille che seguono tra la curiosità e lo spavento il minaccioso passaggio.

Ma, alle volte, quell'una, due o più persone mostrano di esser dirette proprio a una di quelle case deserte e silenziose; e s'arrestano davanti all'uscio che non s'è avuto tempo di chiudere; e s'avanzano, ahimè! su per le scale. E allora, ecco un furioso sbatter di porte; i morti si destano; rumori affrettati di passi, e spesso in punta di piedi; strascichi di gonnelle che spariscono come lampi nei vani delle porte; rimproveri repressi, soffocati alle persone di servizio. Ma le scale finiscono presto; e la voce dei nuovi arrivati già risuona sul pianerottolo. Bisogna senz'altro uscir loro incontro: oh che tortura sorridere e dir parole festose, quando si ha la bestemmia e l'imprecazione nel cuore ! In generale, si manda avanti un ragazzo o una ragazza, che non hanno troppa vergogna se sono in cattivo arnese. - Ora verrà la mamma; mettetevi a sedere. -- E la mamma intanto si veste: tonfi misteriosi, picchi di cassettoni aperti e chiusi. Finalmente la mamma appare e gli abiti, infilati allora allora, hanno atteggiamenti ribelli e non si adattano ancora bene alla persona; e tutto il disagio e la noia, e tutte le discussioni che ci sono state di là, si leggono ancora sul viso distratto e confuso che cerca invano di sorridere e di far festa.

E, altre volte, l'arrivo e l'invasione avviene proprio durante il pranzo. - Nascondi questo piatto! Porta via quel tovagliuolo! Corri, va', spicciati! - Chi fa le spese è sempre la donna di servizio, la quale, mentre scappa col piatto del lesso, tutt' ossi e vecchie cotenne, cade tra le braccia del nuovo arrivato, che, senza chieder permesso, s'affaccia lieto e beato sulla porta della stanza da pranzo.

Ma, nonostante questo spavento e questo scompiglio che, nel nuovo squilibrio tra la vita reale e l'ideale, produce il sopraggiungere improvviso d'una persona estranea nel seno d'una famiglia, si serba ancora costante dai più, allorchè vanno nei paesi vicini, l'uso di invitare con viva insistenza gli amici, e i parenti, proprio come si faceva nei tempi passati. Ma ora l'uso è ridotto a una semplice formula di linguaggio; e guai agli ingenui che volessero dargli retta! - Venite presto a vederci: v'aspettiamo: passeremo insieme una bella giornata: venite senz'altro. - Una volta, io ebbi la semplicità di tenere uno di codesti inviti. Dopo una mezz'ora che ero arrivato, mentre passeggiavo in giardino col padrone di casa, questi si fermò a un tratto, e con aria tra il guardingo e il misterioso mi domandò, con la mente rivolta a chi sa quale sospetto: - A che debbo l'onore della vostra visita? - Immaginatevi come rimasi; egli non ricordava, neppure, i caldi inviti che m'aveva fatti non molti giorni prima. Un'altra volta, in un altro villaggio, mentre scendevo da cavallo davanti a una casa, dove parimenti mi avevano più volte invitato a recarmi presto, potei, dalla strada, cogliere con una rapida occhiata la padrona di casa che, nell'interno della stanza, si afferrava le tempie col classico gesto della più desolata disperazione. Spesso, in molte case, che soggiacciono al tormento di dover vivere in apparenza signorile, non c'è da comprare una libbra di carne; il vino migliore è stato venduto, e quello che resta, se ne resta, è acido o sa di muffa.

Questo frequente, angoscioso stato di miseria, il quale nasce soprattutto dal pregiudizio che il lavorare, il commerciare, il coltivare i campi, l'industriarsi in qualche modo siano occupazioni umilianti e vergognose per un proprietario, fa sì che tutti diano una caccia accanita alle eredità, unico conforto, unica speranza, unica fonte di salvezza. Un mio amico soleva dire che, dalle mie parti, quando un bambino apre gli occhi alla luce, per prima cosa dà uno sguardo ai quattro punti cardinali per assicurarsi se c'è una qualche eredità in vista; e, se non c'è nulla, si dà a piangere perdutamente, e nessuno riesce più a consolarlo. Si fa fondamento sugli altri, assai più che su se stessi; e molti, leggermente, iniziano imprese che non si sa come possano essere condotte a termine; e, quando per mancanza di forze avviene l'arrenamento, ecco sorgere la violenta pretensione che parenti più agiati e più giudiziosi vengano in soccorso. È ancor lontano, troppo lontano il tempo in cui trionfi il principio che ogni uomo sano ha il dovere di bastare a se stesso, e che le spese di ciascuno debbono essere proporzionate alle rendite e ai guadagni. Si vive con due lire al giorno come con dieci. Chi del figlio non può farne un medico, ne faccia un buon operaio e un buon agricoltore, e viva in pace. Ma, nossignore: una famiglia onorata si coprirebbe di vergogna con certi mestieri ignobili: è più decoroso riempire il mondo di professionisti senza professione e andare attorno come masnadieri chiedendo o la borsa o la vita.

Questo stato di continua caccia all'eredità, questo vivere di speranza nel soccorso degli altri, atrofizza e inaridisce, da una parte, le buone disposizioni, le buone attitudini individuali, abbassa il livello della produzione e accresce sempre più la miseria e il disagio; e, dall'altra, getta ombra e veleno nelle famiglie, e fin le più strette relazioni di parentela ne sono agitate e sconvolte. Passata la prima età, spensierata e spontanea, non si ama più il fratello, lo zio, il cognato per dolce consuetudine domestica, per naturale soddisfazione dello spirito, ma solo in quanto essi possono trovarsi in grado di porger soccorso durante la loro vita e di lasciare un patrimonio più o meno vistoso alla loro morte. Un soccorso negato, un'eredità sfumata, e ogni vincolo di sangue e d'affetto è bell' e distrutto. Il fratello e la sorella odiano e mordono il fratello e la sorella che puntano la stessa preda: e chi riceve grazie e sorrisi che possono parere assicurazioni di futuri vantaggi, è bell'e spacciato: non troverà più, tra gli altri aspiranti, un istante di pace, nè un occhio, nè una bocca che più gli si mostri affettuosa. E si cerca con tutte le arti più diaboliche di impedir matrimonii e il sorger di nuova prole e quindi di nuovi più o meno legittimi pretendenti. Tanta è la sete, tanta è la rabbia che nasce da quella superstiziosa e miserabile ignavia.

Non dico già che questi mali siano proprii delle mie parti: pur troppo non ho più ragione di essere così ingenuo da poterlo credere. In altri paesi essi si riveleranno forse in grado ancor più acuto; ma questo non può fare che io non senta la necessità, per il profondo affetto che porto al mio luogo nativo, di mostrarmi aspro contro la piaga vergognosa. Se in altri luoghi, che io non conosco, essa sarà ancor più viva e maligna, è certo, anche, che io conosco dei luoghi dove il danno è ben più tenue, e si annunzia già prossima la piena guarigione. -Ma dalle mie parti, il male si può dir che cresca di giorno in giorno.

E così, tra queste angustie, tra questi crucci e queste mire tormentose, la piccola borghesia dei miei villaggi s'avanza a poco a poco verso la sua assoluta sparizione. Accanto ad essa mena una vita più misera in apparenza, ma in realtà più soddisfatta e tranquilla, la classe dei contadini, nella quale, del resto, non mancano delle famiglie che per agiatezza s'accostano a quelli stessi che aspirano al grado e al nome di signori; e perchè non si vergognano della zappa e lavorano i campi da sè, con le loro proprie mani, sono meglio provveduti di danaro e meno di odii e di rancori. I contadini si trovano, su per giù, nelle stesse condizioni dei tempi della mia prima giovinezza. Certo è diminuito il numero degli analfabeti propriamente detti; e molte di quelle brune mani callose arrivano oggi, non senza, per altro, molti stenti e sudori, a mettere insieme uno sgorbio di firma; ma il prezzo delle loro giornate di lavoro si mantiene il medesimo: cinquanta centesimi per gli uomini e venticinque per le donne, quando vi s'aggiungono le spese; e una lira per gli uomini e cinquanta centesimi per le donne, senza le spese. Ciò nonostante, essi sono ben lontani ancora dall'occuparsi delle nuove dottrine socialistiche ed anarchiche: per questa parte non possono, in alcun modo, esser messi al paragone di contadini di altre regioni d'Italia, anche più meridionali. Anzi, dirò che non esiste da loro educazione politica di sorta: nelle elezioni dànno il voto non al rappresentante della tale o della tal altra opinione, ma a don Luigi nostro, o a don Michele nostro; ossia, possibilmente, al candidato del proprio villaggio o del proprio comune; e, se questo tal candidato non esiste, al candidato che promette cose più pazze e meno facili a conseguire. La politica non ci ha niente che fare: dicano quel che vogliono i giornali. A questo proposito, mi ricordo della comica consolazione dei giornali socialisti della Capitale, una volta che seppero la buona votazione riportata in alcuni villaggi che non nomino, da un candidato del loro partito. < Constatiamo, -- dicevano, - con piacere i progressi che le nuove opinioni» ecc. ecc. Ma sapete il vero perchè della buona votazione? Il candidato era amico del medico condotto; e il medico era andato di porta in porta, chiedendo voti per il suo protetto e minacciando, in caso di malattia, di lasciar crepare solo come un cane chi si fosse ribellato. I voti vennero giù come la grandine: tanta era la paura in quei contadini di morir di morte naturale piuttosto che per mano del loro medico.

Alla mancanza di ogni educazione politica e all'assoluta prevalenza, nelle elezioni, degli interessi comunali e personali, si deve aggiungere che, in quei luoghi, la proprietà (l'abbiamo già notato) è molto frazionata, e non c' è, si può dire, povero che non sia anche proprietario, se non altro, d'un piccolo orto. Questo tiene vivo il sentimento della proprietà e tende ad allontanare l'applicazione di quelle dottrine che minacciano, o paiono minacciare, la spoliazione di tutto. E non bisogna dimenticare che ai coloni si fanno, in generale, buoni patti. La rendita, prima, si divideva o alla metà (ossia col sistema della mezzadria), o alla tre, o alla due e alla cinque: alla tre voleva dire che se ne facevano tre parti, e ne pigliava una il padrone e due il soccio; alla due e alla cinque voleva dire che la rendita era divisa in cinque parti, e ne pigliava due il padrone e tre il soccio. Oggi, che la qualità dei terreni va migliorando, si rende sempre più generale il sistema della mezzadria.

Ma, nonostante questi buoni patti, che si fanno ai coloni, e nonostante che gli scarsi guadagni dei lavoratori a giornata siano in qualche modo compensati dal prezzo dei viveri piuttosto mite per mancanza di commercio, e di danaro nei proprietarii; da qualche tempo, numerose schiere di contadini, attratti dalla speranza di più larghi e più facili guadagni, emigrano ogni anno per l'America del Nord. Essi, avvezzi come sono a lavorare con intensa assiduità dal sorgere al tramonto del sole, senz'altro riposo dei brevi momenti dei pasti, sfidano incrollabili ogni più dura fatica e sono operai ricercati preziosi. Oltre a ciò, abituati a una vita parca e piena di privazioni, riescono a vivere con poco anche laggiù, mettono in serbo gran parte dei loro guadagni. Pieni, anche in quelle terre lontane, dell'amore del loro paese • dei loro parenti, mandano, di tanto in tanto, quei soccorsi che possono; e quando, dopo un certo numero di anni, ritornano, e ritornano quasi tutti, portano ordinariamente con sè un bel gruzzoletto e qualche centinaio di parole inglesi, più o meno storpiate. E, quel che è assai più, portano pure con sè una fede ancor più profonda di quella che avevano prima, nella necessità del lavoro e nell'importanza del danaro, e una nuova idea della dignità umana e un notevole amore per le abitudini di vita netta e decente.

L'ultima volta che tornai a Colledara, e fu dopo tre quattro anni che non c'ero più stato, trovai, sulla strada nuova che si svolge fuori del vecchio villaggio, dalla parte di mezzogiorno, davanti alla vista superba del Gran Sasso, il quale in quel punto si presenta in tutta la gloria del suo aspetto maestoso, trovai, dico, alcune nuove casette bianche e pulite; e ad alcune donne che sciorinavano panni li accanto, domandai di chi fossero. - Sono nostre, - mi risposero; - i nostri mariti, dopo che sono tornati dall'America, non hanno più voluto abitare nelle sudice capanne di prima; e hanno fabbricato queste casette. - Io fissai a lungo quelle piccole pulite costruzioni che ridevano al bel sole autunnale; ed in loro vidi come una lieta promessa, come il simbolo di una gente nuova. La feconda Valle del Gran Sasso si rivestì a un tratto ai miei occhi di nuova e più sublime bellezza. Le strade erbose e sonnacchiose piene di ciottoli, le quali avevan tagliati e profanati i segreti recessi dei miei sogni giovanili,- a un tratto si animarono di gente operosa e di carri carichi di prodotti meravigliosi della terra, e della scienza e dell'arte dell'uomo; e palpitarono come al correre improvviso di un nuovo fluido vitale. Il poderoso e lieto rumore di cento officine e di cento rapidissimi treni echeggiò fra il verde e la maraviglia delle antiche querce. E il Gran Sasso ricopriva e proteggeva del suo paterno imperiale sorriso quel moto e quella vita; e, nell'alto suo divino pensiero, già si delineava la visione di un'altra vita di più fulgida bellezza, ora ignota ai più arditi sogni dell'uomo.

Montagna pistoiese, 1906.

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Sommario

Introduzione e indice

Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara

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