delfico punto it - l'abruzzo e l'abruzzesistica - storia, bibliografia, fotografie, documenti - a cura di fausto eugeni
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Fedele Romani Colledara 6. La famiglia si trasferisce a Teramo |
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5. I briganti |
7. La madre di Fedele |
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Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876 |
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6. La famiglia si trasferisce a Teramo Intanto la mia famiglia e alcune altre dei miei luoghi si stabilivano a Teramo col pensiero sempre alle loro povere case. Ma bisogna pur dire che quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini. Quelle piccole famiglie di proprietarii di campagna, abituate a vivere, si può dir solo coi frutti dei loro campi, e a vedersi considerate, tra la povera gente dei loro nativi villaggi, come signori, quando si ritrovarono improvvisamente tra le infinite spese della vita di città, che non erano preparate a sostenere coi loro scarsi redditi, non ben rincalzati da guadagni personali, non tardarono a trovarsi a disagio e a vedersi costrette a ricorrere a quella dolce Sirena allettatrice, il debito. Ed erano sempre più spinte verso di essa dal desiderio di mantenere nella città quel grado e quel rispetto e quella considerazione a cui la vita del villaggio le aveva abituate. E bisognava poter figurare accanto ai numerosi parenti e amici nati e cresciuti in città; e, qualche volta, andar con loro a teatro e prender parte ad altri divertimenti, e condursi in tutto come loro; anzi mostrarsi, sto per dire, da più di loro per fare onore a quella reputazione di signori che a tutti sarebbe dispiaciuto di perdere. Fortuna che questa condizione di cose durò poco; non più, mi pare, di un anno; perchè, ristabilito, con la forza e l'ostinata persecuzione, l'ordine e la sicurezza, almeno in modo relativo, tutte quelle famiglie poterono tornarsene alla pace del loro villaggio. E la vita di quei piccoli proprietarii e di quei villaggi riprese, a poco a poco, il corso di prima. È vero che il Capo Urbano si chiamava ormai sindaco; i gendarmi, carabinieri; il giudice, pretore; il circondario, mandamento, e così via; ma erano alterazioni di nomi più che di cose. In quei piccoli paesi si faceva sentir poco l'onda di mutamenti più sostanziali. Ma, guardando bene a fondo, qualche cosa di vera mente nuovo cominciava a notarsi anche in quei villaggi. Le dure repressioni del brigantaggio, il rigore nuovo con cui erano perseguitati i delitti e con cui veniva applicata la legge, cominciava ad apportare una qualche modificazione nei costumi un po' sanguinarii dei nostri contadini. Prima della rivoluzione, si può dire che, ogni domenica, o per ragioni di donne, o più spesso per via del giuoco detto la passatella, si vedeva sotto le nostre finestre, trasportato a braccia, su di una sedia, o su di una scala, passar qualche ferito tutto intriso di sangue. Serbo ancor vivo, in modo speciale, il ricordo di quel che toccò a un contadino chiamato Moisè. Al giuoco appunto della passatella, era venuto a parole con un compagno di partita; ma s'era poi fatta, almeno in apparenza, la pace. E, poco dopo, essendo, come vuole il giuoco, stato invitato a bere, egli vuotava a gran sorsi il boccale di vino cotto, quando sentì sulla nuca come un'impressione di solletico fatto con le dita. Egli credè che qualcuno dei compagni, per impedirgli, scherzando, di bere, lo stuzzicasse a quel modo; e continuò imperterrito a bere. Nello stesso inganno cadevano i compagni; ma due larghe striscie di sangue che scendevano dalle spalle sul petto di Moisè, rivelarono a un tratto la verità. Quell'impressione di solletico era prodotta da un rasoio col quale il compagno poco prima offeso si vendicava segandogli il collo. D rasoio ha il taglio dolce, e lì per lì non si sente. Rivedo ancora il povero Moisè, un contadino intelligente e un po' più civile degli altri e molto affezionato a noi ragazzi, lo rivedo ancora, quando passava sotto casa nostra sostenuto da due suoi amici, con quei suoi due rossi rivi di sangue ai lati del petto. Il taglio era stato profondo ed aveva reciso il collo quasi fino alle carotidi. - Una bocca d'inferno, - dicevano, nel loro linguaggio immaginoso e iperbolico, i contadini. Ma, ciò nonostante, e nonostante che la cura antisettica fosse allora un sogno, Moisè guarì: gli rimase, per altro, per tutta la vita, sul collo, un orribile cordone di cicatrice; e io, rivedendola, mi ricordavo sempre con orrore, anche dopo molti anni, di quella scena che mi aveva prodotto tanta impressione. Insomma, il cambiamento di governo parve portar subito una certa modificazione in quel che riguarda i delitti violenti e di sangue: il coltello fu meno adoperato; ma continuò, e forse s'accrebbe la tendenza al furto, al furto propriamente detto, non all'aggressione e alla rapina. La tendenza al furto s'accrebbe insieme con la miseria per le nuove imposte che non avevano in corrispondenza un accrescimento di entrate. Furti in campagna, furti nelle case. Il più frequente era (non dico che oggi non sia, ma io ora parlo in modo particolare del Colledara della mia fanciullezza) quello delle galline. Non passava quasi giorno che non nascesse per questo una baruffa. Vicino a casa nostra -abitava una contadina, Angela Rosa, che era per tal riguardo un vero fulmine di guerra. Essa, la mattina, appena le nasceva il sospetto che una gallina le mancasse, usciva sul pianerottolo esterno della casa e gettava il grido di battaglia: il grido era una cantilena speciale che ella s'era formata per chiamare le sue galline. Ci sono da noi due modi di chiamare le galline: uno usato dai soli signori: pi, pi, pi, pi....; e l'altro dai soli contadini: céce, céce, céce, céce.... Angela Rosa, con la sua cantilena individuale, gridava: - Céce, céce, céce, - cecialle (vezzeggiativo di céce), cecialle mà, céce! Questo grido echeggiava spaventoso nel silenzio: non rispondevano nè galline, nè uomini. Ma la ladra che aveva la gallina nella pentola, se ne stava appiattata in casa, aspettando per vedere che direzione pigliasse la tempesta. Intanto il grido minaccioso si ripeteva con impeto crescente, e la tempesta si addensava sempre più. Arrivata finalmente al colmo della tensione, scoppiava furiosa. Allora, altro che chiamar galline! Eran parole violente, insulti atroci contro un nome determinato, o, per meglio dire, contro un brutto soprannome determinato: minacce, allusioni aperte a fatti vergognosi: era il veleno represso e concentrato che diventava parola. Allora, a un tratto, da quella casa che pareva deserta, dove regnava il silenzio più profondo, si affacciava, o usciva sulla porta, una figura scarmigliata di tigre in carne umana: - Cosa vuoi? Cosa vuoi? Sì, sì, me la son mangiata io per farti crepare: voglio ingrassare a tue spese per farmi bella, più bella di te, brutta faccia verminosa, che fai schifo anche a tuo marito. Neppure i cani ti vogliono. -- L'altra con la rabbia della gallina rubata e con quelle feroci ingiurie per sopraccarico, faceva la bava dalla bocca e ribatteva peggio. Finalmente le due furie, sazie di parole, si gettavano l'una contro l'altra sulla strada e s'afferravano per i capelli. E la lite aveva fine solo quando interveniva o il bastone dei mariti, o la pietà dei vicini. Erano singolari le astuzie che usavano tutte quelle che possedevano galline per prevenire ó scoprirne i furti. Si vedevano galline con una calza rossa, senza coda; ma, poichè la calza si poteva facilmente levare e la coda tornava a crescere, ed era noioso starla a ritagliare tutte le volte, una donna ebbe un giorno un'idea nuova: tagliò a tutti i suoi polli la falange di un dito. Da una finestra io ebbi la fortuna di assistere all'operazione. E bisognava vedere con che celerità quella donna la compiva e come quei poveri polli la sopportavano in pace. Essa dava loro via via un colpo di forbici, e li lasciava andare; e i polli, senza neppur voltarsi a dare un'occhiata di curiosità alla loro carnefice, appena in terra, si mettevano serenamente a beccare, come nulla fosse stato. Ma le lotte causate dalle galline erano comiche più che altro. La tragedia nasceva, qualche volta, nei campi per il furto dei frutti della terra e tingeva di sangue i solchi tranquilli. Mi ricordo che una mattina si udirono all'improvviso alte grida femminili: era una moglie che piangeva il marito rinvenuto scannato come un cane in un fossato. Tutti accorsero, con quella curiosità mista a spavento, che desta la vista del cadavere. Il cadavere giaceva prono al suolo con la faccia rivolta da una parte, con la lingua fuori, serrata fra i denti. I mosconi ronzavano attorno a una larga ferita che aveva reciso la carotide. Vicino al morto, c'era un sacco di spighe di granturco. Poi si seppe che quello sciagurato era stato sorpreso, nel colmo della notte, dal proprietario del campo dov'egli stava rubando. Senza far parola, quando gli fu sopra, questi, con un colpo di scure, gli fece quello squarcio. Avuto il colpo, il ferito disse: - Fermati, chè mi hai fatto; - e cadde a terra rantolando. L'uccisore lì per lì se ne fuggì via; ma poi tornò e trascinò il cadavere, per parecchi metri, fino al posto dove fu trovato la mattina; e il sole mostrò a tutti la striscia lasciata sul terreno qua e là sanguinoso. Ma anche dai furti campestri nasceva spesso il comico, luce eterna della vita. Era famoso per furti notturni nei campi, un contadino dalla figura grossa e tozza, soprannominato Pucino (pulcino). Egli portava i calzoni corti fino al ginocchio, secondo l'antico uso dei nostri contadini, e, l'estate, andava sempre scalzo e coi polpacci ignudi, certi polpacci grossi e tondi da parer che volessero scoppiare. Per la lunga abitudine al furto egli aveva finito, a poco a poco, col camminare d'un passo lento e corto come di gatto che si avanza contro la preda. La sua riputazione di ladro era solida e indiscussa, ma, qualche volta, ne aveva toccate. Si raccontava tra le altre che, una notte, essendo guardiano di una vigna, dove Pucino era andato a rubare, un robusto contadino, ricco di astuzie e marachelle, soprannominato il Banchiere, e compare di Pucino, questi fu colto in flagrante. Il compare fece vista di non riconoscere Pucino, e gli fu sopra con la solita ferocia dei guardiani di campi; e giù botte da orbo sulla schiena del poveretto. Pucino sulle prime si pigliava quella grandine come il Banchiere la mandava; e, per vergogna, o per paura di peggio, stava zitto. Quando non ne potè più, gettò un sospiro: - E, compare, - disse - basta, per carità! - Come! sei tu? o compare mio benedetto, perchè non ti sei fatto subito riconoscere? - E, in queste parole, Sabatinello (era il vero nome del Banchiere) fingeva di disperarsi, e credo si mettesse a piangere addirittura; e gli palpava e accarezzava la schiena. Questi furti erano, come ho già detto, causati, in generale, dalla miseria, nonostante che i cosiddetti nullatenenti siano pochi dalle mie parti: quasi tutti hanno un pezzettino di terra con un po' di casa, che dovrebbe bastare per tirare avanti la vita, con l'aggiunta del guadagno delle giornate; ma quel pezzetto di terra, coltivato male, rende troppo poco e il pagamento delle giornate è troppo scarso, specialmente tenuto conto delle tasse e del l'alto prezzo del sale. E, ai tempi della mia fanciullezza, c'era anche la mostruosa sanguisuga del macinato. Non sempre, per altro, questa piaga del furto era ed è tenuta viva dalla miseria. Non c'è, si può dire, una persona di servizio, che, per quanto provveduta in casa dei padroni del necessario, messa in condizione di rubare, non rubi. ~ come una necéssità creata dall'abitudine. E rendono molto mal volentieri anche gli oggetti trovati: c'è un proverbio che dice: «Roba trovata non si chiama rubata» (rrobba truuäte n' n ze chiam' arrubbäte), e con esso si consolano anche quando avviene che conoscano il vero proprietario dell'oggetto trovato. Ma, a parte questi difetti, e a parte gli altri molti che sogliono ritrovarsi, più o meno, in tutti i contadini, i contadini nostri sono -parchi, resistenti alle fatiche e laboriosi in modo presso che incredibile. La loro giornata è retribuita ancora oggi con cinquanta centesimi per gli uomini e venticinque per le donne, oltre il pasto, ordinariamente rozzo e poco buono, e, oggi, senza vino, neppure annacquato. Il lavoro comincia prima che si levi il sole, sto per dire all'alba, e finisce la sera dopo il tramonto. Durante questo tempo, essi mangiano tre volte: due pasti piccoli, colazione e cena, e uno più forte a mezzogiorno; ma non si riposano un minuto più di quello ché è necessario al pasto. Tornano al lavoro masticando l'ultimo. boccone; e, dopo una giornata di questo genere, tocca loro spesso, quando vanno a esigere dal proprietario il sudato prezzo della loro fatica, di sentirsi dire con uno sbadiglio: - Ripassate domani: oggi non ho spiccioli. - Ho ancora negli orecchi il rumore cadenzato e doloroso degli scarponi d'un contadino, che, rimandato in questa maniera, scendeva lentamente i gradini d'una casa. Quanti pensieri, quanto strazio in quel triste e monotono suono di passi ferrati! L'opera dei nostri contadini era, al tempo della mia fanciullezza, ricercata attivamente nella Campagna romana, dov'essi si recavano in folla, ogni anno, per guadagnar meglio la vita, e donde riportavano, ogni anno, come premio, le febbri palustri. E io li vedevo spesso errare con la testa fasciata (segno di malattia nei nostri contadini), pallidi, macilenti, desolati di doversene stare così senza far nulla. Anche nella milizia, per affermazione di tutti gli ufficiali che ho interrogati su tale argomento, i contadini abruzzesi si sono sempre fatti notare per profondo sentimento di disciplina, per la svegliatezza della mente e per la resistenza e la disposizione alla fatica. Ho detto sopra che il nuovo ordine politico aveva portato una certa modificazione nei costumi. Ciò nonostante, durò l'uso della passatella e delle sbornie domenicali. Ma le tempeste trovavano, il più delle volte, tutto il loro sfogo nelle bestemmie. Il contadino abruzzese ha scarsa facoltà inventiva per riguardo alle bestemmie, e non può stare neppur di lontano al paragone di certi cittadini italiani che si son resi famosi per questo riguardo: le sue bestemmie sono poche e monotone e si formano per lo più mettendo un per davanti al nome di Cristo, della Madonna o del Padre Eterno, senza sorprese e inaspettati giuochi di fantasia. Ci sono anche le offese al padre e alla madre dell'avversario, ma son meno frequenti di quel che non si faccia in qualche altra regione. Frequenti, invece sono le minacce di cannibalismo che fortunatamente non hanno poi seguito: «mi ti mangio; mi ti mangio il fegato; mi ti mangio il cuore»: segno manifesto che i nostri primi padri tennero un giorno quei due visceri come i bocconi più prelibati del corpo umano. La bestialità che prima regnava superba nell'atto, si è rannicchiata, prima di morire, nell'umiltà della semplice parola. |
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Sommario Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara |
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