delfico punto it - l'abruzzo e l'abruzzesistica - storia, bibliografia, fotografie, documenti - a cura di fausto eugeni
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Fedele Romani Colledara 7. La madre di Fedele |
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6. La famiglia si trasferisce a Teramo | 8. Il padre di Fedele |
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Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876 |
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7. La madre di Fedele Ma è tempo che venga a parlare della vita della nostra famiglia che riprese l'andamento di prima dopo il ritorno da Teramo. Mia madre fu ben lieta di ritrovarsi finalmente in casa propria e di poter riprendere le solite abitudini di economia e di lavoro e di tornare ad essere la Signora per eccellenza. Molto essa- ebbe da fare per riprovvedersi di biancheria, di quella bella biancheria tessuta dai nostri contadini, tutta di lino, fatto seminare, gramolare, pettinare, filare da noi. Essa la serbava religiosamente in grossi rotoli bene allineati, dentro grandi casse.. Ce n'era della più fine per camice, della più grossa per lenzuola; della damascata per tovaglie, tovagliuoli e asciugamani. E tutta quella biancheria mandava un profumo, un po' diverso da quello del bucato, ma non meno suggestivo e confortante. E non solo la tela era tutta fatta fare da noi; ma il vino che bevevamo, il pane che mangiavamo, il sapone e tutti i salumi in genere, e qualche volta anche i vestiti di lana, specialmente quelli più andanti ed ordinarii. Ad ognuna di queste fabbricazioni presiedeva una persona di reputazione incrollabile nel suo mestiere. A ogni chiamata, esse si recavano dalle loro residenze, più o meno lontane, a casa nostra, portando con sè tutta la loro sicura esperienza di lunghi anni, e tutti i ferri e tutti gli arnesi del mestiere. Per noi ragazzi erano assicurati uno o più giorni di distrazione, così vivamente graditi in quella monotona vita del villaggio. Volevamo vedere, o, meglio, toccare ad uno ad uno quegli arnesi che ci ripromettevano quelle ore di serena beatitudine; ma le nostre mani erano spesso punite: il che cominciava, già fin d'allora, a farmi riflettere confusamente che il tatto è il più disgraziato dei nostri sensi e quello a cui è meno concesso di soddisfare le sue aspirazioni. E, siccome amavamo quegli arnesi, ci sentivamo pieni di sincera affezione anche per i loro proprietarii, che li sapevano così bene adoprare. Ecco la vecchia col viso tempestato di piccole rughe che paiono i tratti di un disegno a penna: essa si è acquistata gran fama per la sicurezza con cui mediante un fil di ferro ben teso sa tagliare in pezzi il sapone. Ecco un inarrivabile artista nell'arrotondare un prosciutto e nel fare che l'osso della nocella spicchi netto e pulito nel bel mezzo di esso. I suoi coltelli tagliano come rasoi finissimi ed egli li gira con sicurezza ed eleganza. Ecco la mano infallibile di una bella contadina dai grossi fianchi, resi più grossi da sette sottane, maestra nel fare tutte eguali, e rotonde come le sue fiorenti mammelle, le pagnotte di pane bianco. La mia mamma sorvegliava quei lavori e spesso dava una valida mano anche lei. Ma a lei sola era riservato il diritto di preparare i maccheroni con le uova, tagliati sul maccheronaio o chitarra, strumento dove sottilissimi fili d'acciaio sono tesi come l'ordito di un telaio e tagliano le sfoglie della pasta sulla quale si fa scorrere il matterello. Mi pare ancora di vederla lavorar la pasta con le robuste e bianche braccia che digradavano ai piccoli polsi eleganti ed erano segnate da un solco nella parte laterale: i suoi fianchi seguivano il moto delle braccia; la tavola scricchiolava sotto le sue spinte; e lo stracotto che gorgogliava nel tegame, riempiva la cucina e tutta la casa d'un profumo, che, mescolandosi con la luce del sole la quale batteva sul pavimento, dava all'anima un profondo sentimento di serenità e di pace, e risvegliava il vago fuggevole ricordo di altri momenti felici, in altri tempi, in altri luoghi. E nessuno sapeva fare, così deliziosi come faceva lei, i bocconotti, piccole paste ripiene di mandorle o di conserva di frutta, e cotte in forme di latta scannellate. E che dirò degli uccelletti per il S. Antonio? Qui mia madre, gelosa osservatrice della tradizione e del rito, aveva modo di rivelare il lato artistico del suo ingegno. Il 17 gennaio (ora l'uso si va perdendo) giravano per le case uomini isolati, o riuniti in piccole compagnie, per cantare il S. Antonio, una canzone in onore di quel santo; e il canto era accompagnato da chitarre battenti, da triangoli, da buttafuochi e da qualunque altro arnese che potesse aver l'aria d' istrumento musicale. I cantanti si arrestavano davanti casa, o tutt'al più, specialmente se era tempo cattivo, entravano nell'andito del portone. La serva poi scendeva e offriva loro da bere e quegli uccelletti, che non sempre avevan la figura di uccelli, ma che avevano mantenuto questo nome in memoria della loro unica forma primitiva: spesso erano cavallini, ciambelle ornate, fiori, stelle, agnellini. E i sonatori se ne partivano affermando che in nessun portone li avevano ricevuti così belli e così buoni. Ma la sapienza che mia madre mostrava nel preparare i maccheroni e gli uccelletti, era un'inezia rimpetto all'agilità magistrale con cui levava i fagiolini ai pollastri. lo mi sedevo vicino a lei, ammirando, e raccogliendo i residui chirurgici in un piatto. Mia madre me li cedeva in assoluta proprietà, e io poi pensavo a soffriggermeli da me per la colazione. Il pollastro, quasi sentisse al primo tocco la bravura della mano che si accingeva ad operarlo, si rassegnava silenzioso, e solo mandava qualche piccolo sospiro ad ogni strappo di piume che preparava il campo all'operazione. Poi un ardito colpo di forbici faceva l'apertura, e la mano di mia madre, la piccola mano, e un po' ruvidetta per il lavoro continuo, cercava le viscere più interne; e, in un baleno, trovava ed estraeva sapientemente i fagiolini, che io salutavo con un grido di gioia, quando erano ben graniti. Alle volte, ne rimaneva un pezzetto nell'interno: era una ribellione della mascolinità del pollo, la quale tentava di sopravvivere; ma, un altro colpo di mano, e il pezzettino veniva fuori anch'esso. Poi con quattro o cinque punti l'apertura era ricucita; ci si passava su col dito un po' d' olio di oliva, e l'operazione era fatta. Ma rimaneva ancora da tagliare la cresta, la bella corona del gallo, glorioso simbolo del comando e della forza. Mia madre la prendeva per la punta, e rapidamente la recideva con le forbici taglienti. Il pollastro che s'era rassegnato in silenzio a sentirsi rovistare tra gl'intestini, e all'interno strazio crudele; gettava due o tre piccoli gridi di protesta nel sentirsi tagliare il superbo ornamento esteriore: tanto anche ai pollastri preme più il parere che l'essere. Mia madre arrestava il sangue, che scorreva dalla ferita, con un pizzico di quelle piume che, al principio dell'operazione, aveva carpito dalla parte posteriore. Il cappone era fatto; e se ne andava con quell'effimero pennacchio sulla testa, che lo rendeva oggetto di scherno per le conscie galline, le quali al vederlo s'ammiccavano tra loro furbescamente. E l'oculata operosità della povera nostra madre non si rivolgeva soltanto alla comodità della sua famiglia e a preparare il cibo della nostra mensa. Anche lei preparava il mangiare per le opere che lavoravano in campagna. Le persone di servizio non si dovevano immischiare in questo. E che saporite e abbondanti minestre essa allestiva a quella povera gente che bruciava sotto Il sole, mentre noi ce ne stavamo tranquilli in casa nostra. Quelle minestre, condite con aglio e pezzetti di lardo soffritti, mi sembravano tanto più buone di quelle che erano portate alla nostra tavola, e quasi mi pareva che fosse in esse il segreto di quella forza che rendeva così muscolose le braccia dei contadini. Quando ripenso a mia madre, io non rivedo quasi mai la sua figura in atteggiamento di quiete, ma più ordinariamente essa mi si ripresenta mentre saliva le scale tornando su dal fondaco o dalla cantina, che avevano le loro porte nell'andito del portone, carica di grossi pani, di uova, di un boccale di vino e di ogni specie di provviste per il desinare. Risento ancora il respiro affannoso di quella donna infaticabile. Spesso la seguiva la serva, carica anch'essa d' ogni ben di Dio; ma la serva non avrebbe potuto andar sola, nè al fondaco, nè alla cantina, perchè avrebbe probabilmente rubato o mangiato qualche cosa, o, forse anche, si sarebbe ubriacata. Non sempre questa attività di mia madre si esplicava solo dentro le mura della casa. A volte, mentre il grano il granturco era steso ad asciugare al sole su dei copertoni, davanti a casa; il cielo d'un subito, si rannuvolava e cominciava a brontolare cupamente: bisognava correre a chiamar gente, eccitare, sorvegliare il lavoro; e mia madre, allora, la si vedeva in campo a dare ordini concitati alla gente, che raccoglieva in fretta e annodava i copertoni. Com'era bella così scamiciata, come la voce del temporale l'aveva sorpresa in casa, con le lunghe maniche della camicia rimboccate, che mostravano le belle braccia, e col fisciù, gettato in furia sulle spalle, che si agitava al vento! E tutti obbedivano con fretta rispettosa ai suoi ordini. Dopo che noi, suoi figliuoli, cominciammo a vivere per ragione di studii gran parte dell'anno in qualche cittaduzza vicina, al veder nostra madre nel mezzo della via, tra il grano e il granturco e i fagiuoli e i ceci, scamiciata come una contadina, provavamo dolore e vergogna, e la supplicavamo dalla finestra di volersi mettere un giacchetto: tanto gli studii e gl'insegnamenti possono stravolgere il cervello dei poveri ragazzi ! |
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Sommario Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara |
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