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Fedele Romani

Colledara

2. I nonni

 

1. Colledara e il Gan Sasso 3 - L’eccidio di Brozzi
 

Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi

donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876

 

2. I nonni

Quando io cominciai ad aver coscienza d'essere al mondo, era ancor molto fresca, in casa, la memoria dei miei nonni paterni, morti poco tempo prima ch'io nascessi. La mia mente si affaticava a ricostruire l'immagine, scomparsa per sempre, di quei miei avi, i quali non avevano lasciato nessun ritratto, neppure uno di quei dagherròtipi che, negli ultimi anni della loro vita, già s'erano resi abbastanza comuni, anche nei piccoli paesi, per opera di artisti girovaghi. II nonno, mi dicevano i genitori, era un uomo simpatico, senza barba, secondo la moda del settecento e un po' in contrasto con quella del tempo in cui si svolse la seconda e principale parte della sua vita, nel quale le barbe cominciavano a ondeggiare, quelle barbe che eccitavano la stizza del Leopardi. Egli era, inoltre, un po' faceto, un po' chiacchierone, e di buon cuore, e non senza un certo principio di disposizione per un qualsiasi sentimento artistico. Usciva da una famiglia di gente operosa, che erano arrivati col lavoro a procurarsi una certa agiatezza e a primeggiare nel villaggio: una famiglia di lavoratori della terra e di piccoli negozianti; ma tanto lui quanto i suoi fratelli credettero, con quella piccola porzione di patrimonio che toccò a ciascuno alla morte del padre, di poter vivere senza lavorare, di fare i signori. E si dettero anch'essi a quella vita di signorotti di villaggio, piena, per lo più, di faccende oziose, non richiedendo l'amministrazione dei piccoli patrimonii tutto il lavoro della giornata: s'aggirano per casa (quando non perdono il loro tempo giocando e bevendo), incresciosi e pesanti a se stessi ed agli altri, e sfogano la loro energia urlando e rimproverando, e intralciando in mille modi il lavoro delle povere donne, piene di operosità rassegnata e d'abnegazione. E così si veniva formando anche a Colledara quella spostata borghesia di campagna, che matura nell'ozio la propria fine.

Un bel giorno, il mio nonno si divise dai suoi fratelli e pensò di edificarsi una casa per sè. E seppe scegliere la posizione più bella: lasciò il Colledara basso dov'egli era nato, e fabbricò la nuova casa a Capo di Colle. Era stato più volte ad Aquila, e, mi pare, anche a Roma: n'aveva riportato il ricordo di quei palazzi; e credette di fare un palazzo anche lui, mentre s'apparecchiava, senz'accorgersene, a costruire una modesta casa di campagna. Nei suoi giri, che in quei luoghi e in quei tempi, potevano sembrare veri viaggi, la cosa che più gli aveva colpito la fantasia, erano i grossi cornicioni dei palazzi, dei quali non s'aveva esempio nel suo paese nativo, dove non si vedevano che nere e rozze gronde di legno. E, con la mente piena di quelle sontuose sporgenze, fabbricò, si può dire, la casa per il cornicione; e tutto il suo pensiero lo raccolse in quell'ornamento, che diventò la parte principale. Più tardi si dovè alleggerire la casa di quell'ingombro, che minacciava di farla cadere.

Altra forte impressione aveva riportata dalle grosse muraglie degli antichi palazzi; ed egli subito a imitarle nella sua fabbrica, che doveva riuscire l'espressione sincera del garbuglio estetico d' un' anima vivace, ma ingenua e incolta. E, pur di fare i muri grossi, non si curava di rubare sempre più lo spazio alle piccole stanze. E, poichè aveva forse visto, o sentito dire, che a Roma i gran signori fabbricavano con le pietre tolte ai ruderi degli antichi maestosi edifizii, volle avere anche lui il suo monumento da sfruttare, e volle esercitare anche lui le sue rapine. Adornò la porta di strada, o, come laggiù dicono superbamente, il portone, di pietre lavorate, tolte a una vecchia diruta chiesa del seicento, prossima al villaggio; e mantenne sulla chiave dell'arco la sigla di Cristo. Portò via da quei ruderi sacri anche un paffuto angiolone con le gambe spezzate; e, non sapendo cosa farne di meglio, lo collocò, c'entrasse o non c'entrasse, sulla parete a capo della prima scala. E, quand'ebbe portato a termine tutta la costruzione, soddisfatto del  l'opera sua, appose la firma al capolavoro, disegnando le proprie iniziali con pezzetti di mattoni, confitti nel selciato interno del portone. Per non esser da meno dei papi, avrebbe forse voluto apporre uno stemma all'edifizio, ma lo stemma egli non l'aveva, e dovè contentarsi di quelle povere iniziali. Io guardavo quell'angelo grasso e quelle pietre di chiesa, e interrogavo mio padre, e fantasticavo.

Mi dicevano che il nonno, mentre era di buon cuore, era anche un po' furioso e di primo impeto; e me lo rappresentavano in due momenti caratteristici. Un giorno, non so per quale contravvenzione ai suoi ordini, riguardanti un quadro di cavolfiori piantati da lui stesso nell'orto dirimpetto alla casa, dei quali aveva somma cura, prese d'un subito un lungo coltellaccio, e, sceso col sangue agli occhi giù nell'orto, cominciò, avventandosi qua e là tra i cavolfiori, a reciderli dalla radice a uno a uno, e a gettarli al di là della siepe di confine. Non valsero preghiere, suppliche, pianti di persone, o accorse dietro di lui, o che s'affollavano alle finestre della casa: egli non smise la strage nefanda, se non allorchè il quadro fu tutto devastato e distrutto.

Un altro giorno, egli era appoggiato pensoso al fusto d'un olmo e guardava lontano verso il Gran Sasso; ma, in quella stessa direzione si trovava un altro villaggio e la casa d'un agiato proprietario. Proprio in quel momento, passò accanto al mio nonno, tornandosene verso casa, quel proprietario, gelosissimo di sua moglie. E, immaginando che don Fedele (così si chiamava il nonno), fosse là per farle da lontano la corte: - Tienlo fermo, - gli disse, a denti stretti e con sorriso ironico, - tienlo fermo cotesto olmo. - Il mio nonno, lì per lì, non riuscì a capire, e rispose con uno di quei sorrisi di convenienza, che non dicono nulla. Ma, appena l'altro si fu allontanato di pochi passi, un raggio di luce gli rischiarò la mente: volò al forno vicino, e, afferrato senz'altro il fruciandolo, rincorse per un bel tratto il marito geloso, che non stette lì ad aspettarlo come avevano dovuto fare i poveri cavolfiori.

Gettava spesso un po' d'acqua in quel fuoco, donna Pulcheria, la nonna, o la gnôre (signora), come c'insegnarono a ricordarla da bambini. Signora in questo caso ha il suo senso primitivo di più vecchia, misto col senso secondario di più rispettabile: allo stesso modo, il nonno è chiamato ancora dai nostri contadini lu sciôre (sc col suono del c toscano in bacio) il signore; ma noi lo chiamavamo papà russe (papà grosso = grand père).

La nonna, dunque, col suo carattere più freddo e un tantino ironico, infrenava quelle furie tragicomiche. Essa apparteneva a una famiglia dei dintorni, se non propriamente nobile, certo molto agiata, e civile da lungo tempo; ed era stata sposata dal nonno per il desiderio di formarsi una parentela, in certo modo, aristocratica, e per gettare le basi d'una nuova famiglia signorile. Il matrimonio era stato facilmente combinato, nonostante la disparità di condizione, per motivo della piccola dote, detta di paraggio, che assegnavano in quel tempo alle donne.

Di fatti particolari, che caratterizzino, in qualche modo, la gnôre, ricordo solo che, quando la mamma le portava il caffè a letto, dov'essa giaceva malata della sua ultima malattia, aveva l'abitudine costante di versare e riversare ripetutamente il caffè dalla tazza nel piattino e dal piattino nella tazza per farne rilevare il colore che, secondo lei, era sempre troppo sbiadito. Così la suocera sfogava il suo istintivo rancore contro la nuova padrona.

Ma, una mattina che il nonno era andato a Tossicía, capoluogo del Circondario (come dicevano allora, nel Regno di Napoli, per Mandamento), ecco arrivare trafelato un corriere il quale disse a mio padre che il giudice (poi chiamato pretore) lo voleva d'urgenza. Egli ubbidì in fretta; ma, invece di una questione giudiziaria, come si aspettava, essendo avvocato; trovò il padre suo disteso sul letto del giudice, col rantolo dell'agonia per una apoplessia fulminante che l'aveva colpito mentre parlava tranquillamenté col magistrato. Egli non dava più segno di vita, e solo aveva dei movimenti meccanici; e così, senza dir parola, e senza riconoscere il figlio, dopo poche ore morì, e fu sotterrato nel Convento di Tossicía.

Mia madre era in cucina a preparare la pasta pei maccheroni, quand'ecco sente, sul selciato davanti alla casa, risonare il passo della giumenta di famiglia. Era mio padre che tornava con la lugubre notizia. Appena a capo alle scale, la comunicò turbato e a voce bassa a mia madre. Ella gettò un grido: il grido fu sentito dalla nonna, la quale, con la curiosità sospettosa propria dei malati, volle sapere che fosse accaduto; e, lì per lì, bisognò inventarle una storia. Ma, quando conobbe la verità, il suo stato si fece più grave, e morì dopo non molto. Correva l'anno 1853.

Morta che fu la nonna, il garzone e un soccio, ossia un contadino di casa, furono incaricati di vestirla. Essi, per compier meglio la loro funebre operazione, la sollevarono e la posero quasi a sedere sul letto. Ma, in questi movimenti del cadavere, un po' d' aria che gli era rimasta nei polmoni venne fuori dalla bocca col suono d'un lungo straziante sospiro. Quei due poveretti, terrificati fino alla demenza, lasciarono ricadere pesantemente il cadavere e fuggirono urlando; nè ci fu verso di farli più rientrare nella camera della morta, e bisognò chiamare altre persone per vestirla.

II racconto di cotesto fatto agitava in modo particolare la mia fantasia di fanciullo; e vedevo e rivedevo quelle forme ceree di cadavere che ricadevano sul letto, e quei due uomini che scappavano atterriti.

Molto prima dei nonni, era morto in casa nostra un lontano parente, don Pietro Mattei, laureato in legge: cosa rara a quei tempi, perchè, per esercitare la professione d'avvocato, bastava essere forniti della Licenza. Egli, rimasto solo, vecchio e senza parenti prossimi, combinò-coi miei nonni, come allora s'usava, assai più spesso di oggi, un vitalizio; e lo accolsero in casa, e gli assegnarono una cameretta, che, per lungo tempo, fu poi chiamata, anche dopo la sua morte, «di don Pietro». Presto si sviluppò in lui la pazzia, che quasi a giustificare il casato, era ereditaria nella sua famiglia; e pazzo, d'una pazzia malinconica ed innocua, se ne morì. Tre oggetti a lui appartenuti rimasero a lungo nella mia famiglia: un soprabito di seta color nocciuola, alla moda del settecento, un gilè di raso bianco ricamato in seta a colori vivaci, e un rotolo di pergamena: la laurea. Io e i miei fratelli ammiravamo in modo speciale l'enorme sigillo di ceralacca che l'accompagnava, contenuto e chiuso in una scatoletta di latta. Il soprabito e il gilè ci servivano spesso per mascherarci; e ci erano, per lo stesso scopo, domandati qualche volta in prestito da amici e parenti. La pergamena fu a poco a poco tutta consumata da noi bambini, inconscii ministri, come tutti i bambini, di distruzione e di rinnovamento, per farne delle «ranocchielle» come dicono a Firenze, o, come dicevamo noi, delle «cicale»; e così, osserverebbe un maligno, quella pergamena, invece d'un avvocato solo, ne fece venti o trenta.

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Sommario

Introduzione e indice

Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara

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