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Nota biografica e
citazioni dalle poesie Nota biografica, a cura di Fausto Eugeni |
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Federico Pensa (Teramo, 1818-1870)
Federico Pensa, poeta dialettale, morì a Teramo il 18 marzo del 1870 all'età di cinquantadue anni, tra il rimpianto accorato dei teramani che lo avevano amato moltissimo e avevano imparato e recitato le sue poesie, affascinati dalla sua indole gioiosa e vitale. Figlio di Nicola Pensa, Giudice della Gran Corte Criminale e Sindaco di Teramo, Federico fu in gioventù un apprezzato pittore paesaggista, allievo di Pasquale Della Monica. Dotato di temperamento estroverso e sanguigno, si impegnò in prima persona per la causa dall'Unità d'Italia. Finito sotto processo, fu perseguitato dalle autorità borboniche che tuttavia, come ricorda Giuseppe Savini, non riuscirono mai a spegnere in lui "quella vena poetica così festiva". Dopo l'Unità, si impegnò nella vita politica cittadina e ricoprì le cariche di Assessore Comunale e di Presidente della Camera di Commercio. A quanto si dice, compose moltissimo, quasi sempre in dialetto teramano e quasi sempre "poesie d'occasione": racconta Savini come ogni anno Pensa dedicasse un sonetto a San Berardo in occasione della festa del Santo. Quasi tutti i suoi scritti andarono purtroppo perduti anche perché durante la sua vita non permise mai che i suoi versi fossero dati alle stampe. Le sue composizioni, in genere, venivano trasmesse o attraverso copie manoscritte o "a voce" (egli stesso era un ottimo dicitore) ed erano in molti a conoscerle a memoria: fu proprio Savini che ricordò e trascrisse un San Berardo composto da Pensa e che egli aveva imparato da bambino. Nel 1845 Federico Pensa compose il suo capolavoro: una parodia del grande congresso degli Scienziati tenuto in quell'anno a Napoli e del quale egli immaginò che una speciale sezione, detta de lu sgrizze, si tenesse sulle rive del Tordino. Il "poemetto" è oggi perduto ma Giuseppe Savini, che ne recupeò una copia ed ebbe modo di leggerlo, ne parlò in termini entusiastici: preferì comunque (anche lui!) non pubblicarlo a causa dei troppi e troppo espliciti riferimenti a personaggi in vista. Ed è probabile che lo stesso Pensa, abituato a esprimersi senza peli sulla lingua, preferisse alla fine far circolare i propri versi alla macchia, ben cosciente della carica provocatoria in essi contenuta. Di questa sua colpa egli pubblicamente si confessò nell'esordio del San Berardo scritto nell'anno del colera (1855). Sam Brà, Sam Brà, sta lengua zèzza mi n'è 'bbone p'arcundà li grazzeje tò! Il sonetto contiene un saggio esemplare della "linguaccia" di Federico Pensa i cui versi proseguono in un crescendo di irriverenza simpaticissima, tale però da sconsigliarne la pubblicazione in questo giornale diocesano (chi vorrà, potrà leggerlo alle pag. 29 e 30 del libro di Giuseppe Savini sul dialetto teramano). |
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Un sonetto in onore di Giannina Milli Federico Pensa compose questo sonetto in onore di Giannina Milli nel 1863 quando la poetessa, reduce dai clamorosi successi ottenuti nei teatri di tutt'Italia, fece il suo trionfale ritorno a Teramo. Del sonetto esistono due versioni con leggere differenze, una manoscritta che Pensa donò alla Milli e l'altra a stampa pubblicata nel 1866 da un gruppo di amici del poeta che assunsero l'iniziativa all'insaputa dell'autore.
A Giannina Milli Lu monn' arbombe di li virs tù. La gent' pe vedert' fa ciacè; Li vive, li medajje e li puppù Ti piove sobre, oh bijata a tè!
O Terme mi felice, e chi vù chiù? I lu vede e nu crede manc'a mè! Nu Marchijonn' già se sa chi fu, E Giannina na è come ca è.
Quann' virsigg', ti ving' a sintì, Vujje vedè se te ne vù 'rcurdà Na mijchett' di l'Italia mi.
E lu pinzire sì quale sarì? Che senza li suldate e lu sparà, Pitre e Marche n'zè po pizzichì. |
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Nota biografica su Federico Pensa, tratta da Giuseppe Savini, Grammatica e lessico del dialetto teramano.
... Ultimo, per ordine di tempo, ma forse il primo per merito, degli scrittori in vernacolo, fu il rimpianto Federico Pensa. Nacque egli col dono dalla natura di una vena poetica coli festiva, che non si smentì mai, neppure in mezzo alle traversie delle persecuzioni politiche. Ei compose moltissime poesie in dialetto, in cui la spontaneità, il buon umore, la proprietà dialettale furono sempre eguali. Non so se i suoi manoscritti si conservino ancora, certo è che egli ogni anno, da buon pappardellaro, nella ricorrenza della festa del nostro protettore S. Berardo, dedicava a questo un sonetto. Io ne ricordo uno, insegnatomi quand'ero bambino, e composto nel 1855, allorchè il colèra minacciava per la seconda volta la nostra città. Il poeta si rivolgeva a S. Berardo, e gli diceva:
Sam Brà, Sam Brà, sta lengua zézza mi Nn'é 'bbone p' arcundà li grazzeje tò! Quanne ji la sere me vach'a ddurmì, L'ucchie me se fa rusce tutt'a'ddò!
Quanne ji arpenze, e dic'accusci Ci fice simbre 1'avvucat' a nnò? Ci fu che m' Baradise disse: embè, pe Ccri La cacarell'a Téreme ? e'ddò! gnornò!
Nem' buste tu, e nen zi simbre tu Che ci arpire li palle; e pù de te No' simbre ce scurdeme, e pù. 'n'è cchiù.
Pe tte n'ze sona mi nu zuchetezu, Nu spare, na carríre mi pe' tte ? Nu sunette, nu strille. Sam Bradde! bu!
Oltre questi sonetti ed altre poesie vernacole e Toscane, egli, nel 1845, quando si tenne in Napoli il congresso degli scienziati italiani, scrisse in una sola notte una parodia di esso, fingendo che sulle rive del Tordino si fossero ancor essi raccolti a congresso gli scienziati Teramani. Fra le varie sezioni del congresso, ce n'era una chiamata de lu Sgrizze, ossia dei beoni, la quale per lingua officiale aveva adottato il patrio dialetto. Tutta la parodia, ma sopratutto la parte in vernacolo, è graziosissima, e meriterebbe di essere stampata, se non vi fossero per lo mezzo troppi nomi propri. |
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