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Luigi Savorini,

Introduzione storico-artistica

agli studi del piano regolatore della città di Teramo

in "Teramo. Bollettino mensile del Comune di Teramo", anno III (1934),
n. 3-4, marzo-aprile, pp. 11-50; e anche per estratto.

 

SOMMARIO DELL'ARTICOLO

Nel decorso anno [premessa]

I. - Il “Conciliabulum„ dei Pretuziani

II. - L'Agro Pretuziano e l’Interamnia preromana

III. - L’Interamnia dell’epoca romana

IV. - La zona archeologica

V - Distruzioni e rifacimenti della città nell'alto medioevo

VI. - Osservazioni topografiche

VII. - Lo sviluppo edilizio nel basso Medioevo

VIII. - La «terra nova» di Teramo dal principio dell’età moderna sino all’unità d'Italia

IX - Il progresso edilizio teramano dall'epoca del Risorgimento all'era del Fascismo

X. ‑ Una questione di umanità, che è anche di bellezza e di decoro

XI. ‑ La sistemazione del centro cittadino e l’isolamento degli edifici monumentali

XII. - Il Foro della nuova Interamnia

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Nel decorso anno, l’On. Podestà di Teramo, Dott. Comm. Vincenzo Savini, allo scopo di preparare gli elementi indispensabili alla compilazione di un progetto , per il piano regolatore della Città, nominava una Commissione, chiamando a farvi parte i Sigg: Cav. Uff. Rag. Aldo Guido Villani, Vice Podestà; Comm. Gennaro Flajani, Preside della Provincia; Comm. Avv. Francesco Rodomonte e Geom. Berardo Di Curzio, Consultori municipali; Cav. Ing. Leonardo Pannella e Dott. Cav. Muzio Muzii, in rappresentanza della Federazione Prov. Fascista; Avv. Francesco Franchi e Cav. Lorenzo Cicognani, in rappresentanza della Delegazione Prov. Fascista della Proprietà edilizia; Ing. Alfonso De Albentiis e. Geom. Tommaso Marozzi, in rappresentanza del Comitato Prov. Sindacati Fascisti Professionisti ed Artisti; Cav. Prof. Luigi Savorini, Dott. Iacopo Nardi e Prof. Vittorino Scarselli, per la Commissione edile; Gr. Uff. Avv. Luigi Paris, già Sindaco di Teramo; Dott. Mario Cerulli, già Consigliere comunale; l'Ufficiale Sanitario, l’Ingegnere Capo dell'Ufficio tecnico ed il Segretario del Comune.

 All'insediamento, avvenuto il 18 ottobre 1933, il Podestà spiegava come la Commissione dovesse, per i propri studi, tener presente le possibilità economiche e finanziarie del Comune, il naturale e razionale sviluppo dell'abitato, le necessità igieniche, la opportunità di nuovi edifici pubblici, di sedi più decorose per Enti, Associazioni e simili, la importanza turistica della Città e della Regione, la valorizzazione artistica dei monumenti, le necessità panoramiche e paesaggistiche, la conformazione oro‑idrografica della zona (caratterizzata da ampie vallate e da scarsezza di vasti piani), le condizioni climatiche (direzione dei venti, grado di umidità, ecc.), la opportunità di mantenere inalterate, per quanto possibile, le caratteristiche della vecchia Città.

 L’On. Savini fissava quindi, i seguenti temi:

1.) eliminare costruzioni antigieniche, allargando vie, costruendo piazze e zone di verde, con fontane ornamentali;

2.) studiare il sistema delle comunicazioni interne, in rapporto a quello esterno, in maniera da decentrare il traffico, avvalendosi, in particolare, delle strade periferiche e di circonvallazione, da migliorarsi ed ampliarsi;

3.) collegare la stazione ferroviaria con la Città mediante separata arteria stradale, includendovi un nuovo ponte sul Vezzola ;

4.) isolare monumenti pregevoli (Duomo, Anfiteatro Romano, ecc.) e restaurare edifici minori, romani e medioevali;

5.) studiare la opportunità di trasferire la Residenza Civica, oppure la parziale demolizione e ricostruzione della attuale vecchia sede, da armonizzarsi con la parte monumentale e con gli antichi edifici circostanti ;

6.) studiare la migliore ubicazione per: la Casa del Fascio, le scuole elementari, le scuole industriali, la biblioteca, il polisportivo, le caserme, il campo di Marte, il campo di aviazione, il politeama, gli alberghi, il mercato coperto, i magazzeni di deposito, le cantine sociali, i silos, ecc. ;

7.) coordinare lo studio del piano regolatore con eventuale prolungamento della ferrovia e nuova ubicazione della stazione;

8.) ripartire la Città in zone fabbricabili, attribuendo, a ciascuna, un diverso tipo edilizio;

9.) sistemare e valorizzare la parte collinosa;

10.) formare un piano provinciale e regionale, che sappia dare ossatura organica ed economica alla Provincia ‑ con centro Teramo ‑, collegando e facendo confluire paesi sparsi e centri lontani.

  Lo stesso giorno 18 ottobre, la Commissione si suddivideva nelle seguenti Sottocommissioni:

a) Artistico‑Storica (Sigg. Paris, Savorini e Scarselli);

b) Urbanistica (Sigg. Muzzi, Di Curzio, Rodomonte, Franchi, De Albentiis e Marozzi) ;

c) Igienica (Sigg. Cerulli, Nardi, Muzzi e De Albentiis) ;

d) Economica (Sigg. Flajani, Pannella e Rodomonte).

 Le Sotto-Commissioni e la Commissione, presiedute dal Vice Podestà, hanno tenuto varie riunioni, in una delle quali - quella del 26 novembre 1933 ‑intervennero i Sigg. Avv. Borrelli De Andreis Giuseppe e Arch. Comm. Paolo Rossi, rispettivamente Capo dell'Ufficio legale e Capo dell'Ufficio tecnico della Federazione Nazionale Proprietà Edilizia, dando preziosi suggerimenti ed il contributo della loro esperienza.

La Commissione ha espletato il proprio compito ed a giorni rimetterà apposita relazione al Podestà.

Pubblichiamo, intanto, l’introduzione storico-artistica agli studi del piano regolatore, stesa, con particolare cura e vero amore, dal Prof. Savorini.

La Sottocommissione, incaricata di riferire per la parte storico‑artistica, sulla guida dei principali storici teramani (Muzio Muzii, Nicola Palma e Francesco Savini) e sulla base anche delle proprie dirette osservazioni, ha tentato di conciliare i desideri del popolo teramano con le tradizioni storiche e i destini futuri della città.

 Tale compito sarebbe spettato allo storico Francesco Savini. La Sottocommissione però l’ha tenuto sempre presente attraverso le sue opere, le quali tanto lume hanno apportato alla presente compilazione. 1 suoi studi sui principali monumenti e gli edifici teramani del Medioevo, ma sopratutto l'opera poderosa sul “Comune di Teramo”, ove per ogni periodo è descritto lo stato edilizio della città, hanno fornito elementi preziosissimi al lavoro affidato alla Sottocommissione. La quale unanime, insieme con tutti gli altri colleghi del Comitato, ha presentato all'insigne e benemerito Cittadino le più affettuose espressioni di omaggio e di gratitudine invitandolo ad esaminare la presente relazione. Nel restituirla al relatore Prof. Luigi Savorini, lo storico illustre ha espresso “i suoi più caldi auguri perchè le belle e serie proposte della relazione abbiano presto la loro completa esecuzione”.

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I. - Il “Conciliabulum„ dei Pretuziani

Al pari di altre sue consorelle italiche, sorte prima di Roma, Teramo, quanto alle origini, rimane perduta misteriosamente nel buio dei secoli.

Tacciono al riguardo gli antichi scrittori. Una tarda leggenda, formatasi probabilmente nel medioevo, allorchè si diffuse la tendenza ad attribuire la fondazione delle città italiane ad un qualunque eroe greco o troiano, reduce vittorioso o profugo non meno glorioso dall'eccidio di Troia, fantasticò di un Antenore che avrebbe edificata questa città, per abitarla con i suoi Troiani. Teramo dunque avrebbe avuto il fondatore in comune con Padova, dove si arrivò al punto di riconoscere le ossa e di costruire la tomba dell'eroe troiano. Assurda leggenda, alla formazione della quale non furono forse estranee, per Teramo, le rivalità municipali del medioevo. Chieti si credeva fondata dai Greci, ossia dai compagni di Achille, che la chiamarono Teate da Teti, madre dell'eroe. Era naturale che, per contrapposto, Teramo fosse stata fondata dai Troiani.

La mancanza di antiche testimonianze negli scrittori, l'assurdità della leggenda o, per meglio dire, della favola di Antenore, non nuocciono al moderno indagatore, perchè più libero gli lasciano il campo alla diretta interpretazione dei resti archeologici e alla interrogazione della natura dei luoghi. Le scoperte paleo-etnologiche fatte da Concezio Rosa anche nella Valle del Tordino, oltre che in quella della Vibrata, ci permettono di risalire ad un'epoca assai anteriore a quella delineata nelle forme di una civiltà già ben evoluta dalla rapsodia omerica. E il sottosuolo breccioso, alluvionale, anche a monte dell'attuale città, per tutto il pianoro posto tra i due fiumi che la bagnano, ci dice del lento avanzare del confluente attraverso i millenni e del posto lasciato a poco a poco agli abitanti delle alture circostanti per sostarvi e prendervi poi stabile dimora.

Il nome stesso della nostra città ci pone in condizione di far rientrare le sue origini nell'ordine naturale. Interamnia, ossia inter amnes, fra due fiumi. Una città posta al confluente di due corsi d'acqua : l'Albulata e il Batinus, oggi Vezzola e Tordino. Molti altri luoghi si son trovati in tale postura, quasi di peninsulae, tra due fiumi. Ne hanno tratto il nome, ma non sempre anche importanza. Interamna Lirinas, ossia Interamnia Lirinate, alla confluenza del Liri col Rapido, a Pignataro d'Interamnia, presso Cassino, oggi non è che un cumulo di rovine. Interamna Nahars, l'odierna Terni, sulla Nera, al confluente col Velino, è la sola che oggi sia in fiore per le sue industrie. Una quarta: Interamnia dei Frentani, se dobbiamo accettare l’opinione del Romanelli e d'altri storici abruzzesi, combattuta dalla ipercritica straniera, cor risponderebbe all'odierna Termoli nel Molise.

Dalla sua postura la città nostra non poteva derivare grande importanza, trasse però ragione di vita, acquistò stabilità e sicurezza di graduali progressi. I due fiumi erano anche allora, come sono oggi, poco più che due torrenti, nè v'era possibilità di risalirli dal mare, nè pure per breve tratto. Si offrivano tuttavia ugualmente come vie di comunicazione. Com'è noto, sulle rive dei patrii fiumi, sul greto degli antichi torrenti corsero le prime strade.

In questa zona così montanamente sconvolta, fra tanti abruptos montes, l'Albutata e il Batinus scendevano come due ampi camminamenti da varie bande della montagna. Compiuta questa prima funzione, s'unificavano in una sola grande via maestra conducente al mare ed il confluente non era, come altrove, tra forre impraticabili e dirupi scoscesi, ma al principio di un'ampia vallata, in un pianoro verdeggiante che invitò prima alla sosta e al riposo, poi al convegno, quindi alla stabile dimora ed al congresso civile.

Ecco dunque formarsi la piccola metropoli dei Pretuziani, ecco stabilirsi il conciliabolo menzionato da Frontino: hoc (Interamnia Praetuttianorum) conciliabutum fuisse fertur et postea in municipii jus Telatum. Conciliabolo, ossia luogo in cui un popolo autonomo s'adunava per trattare e deliberare sui comuni interessi. E fu campo che non si limitò al breve tratto del confluente dei due fiumi mentovati, ma proseguì oltre, verso il mare, all'incontro di un altro confluente, quello di Fiumicino. Fin là giungevano, e lo attestano i resti archeologici, le ville e le case dei Pretuziani, sicché ben disse il Muratori, parlando della nostra Interamnia : tribus amnibus obsessa.

Non è ozioso ricordare questi remotissimi precedenti, in materia di piani regolatori. Perchè se il piano regolatore d'una città deve essere anzitutto in piena rispondenza alle sue tradizioni storiche ed alle condizioni naturali, è bene tener presente che la ragion d'essere della città nostra è oggi quella stessa del suo passato più che millenario, che cioè Teramo anche oggi è il conciliabolo del territorio pretuziano e che nè alterazioni circoscrizionali, nè limitrofe apparizioni di nuovi centri più o meno cospicui potran mai stornare o minimamente turbare ; la corrente di vita che la natura stessa con le sue immutabili leggi ha stabilita per queste valli, tra la montagna e il mare, corrente di cui Teramo fu sempre e sarà ognora il centro propulsore e vivificatore. Altre città, arroccate su alture troppo eccelse, possono veder compromesso il loro avvenire pel deviamento delle correnti commerciali verso i piani e le marine. Teramo, in un pianoro di facile accesso, che si trova a soli 265 metri sul livello del mare, in un punto di passaggio obbligatorio, per lo sfocio di tante valli, in un vero e proprio nodo stradale, non ha nulla da temere. La corrente che le diede la vita, se non è ancora poderosa, è per lo meno costante e tale da resistere ad ogni tentativo di deviazione, tale anche da determinare, sia pure lentamente, gli ulteriori sviluppi. Lo dimostra l'espansione che con incertezza, è vero, ma con continuità, ha avuto la nostra Teramo dal 1860 in poi, dopo le miserie e il travaglio di tanti secoli. Le necessità d'ingrandimento hanno sboccato nella forma di nuovi quartieri (Stazione, Castello, Madonna della Cona) e nella costruzione pur troppo non regolata di nuovi edifici alla periferia.

 Il nuovo piano regolatore dovrà dare una disciplina a questo movimento di assestamento e di espansione rettificando gli ampliamenti dilagati a casaccio dalle vecchie cinte murarie. Dovrà anche all'interno adeguare l'antico organismo alle profonde mutazioni che la vita moderna ha create. E il compito non sarà difficile, data la semplicità di struttura di tutto il vecchio nucleo urbano. Ma non dovrà limitarsi a questo soltanto. Occorre vigilare, preordinare, difendere i movimenti ulteriori. Molte condizioni sono mutate. Le nuove forme di comunicazioni, di trasporto, di accentramento sono cambiate e non in eguale misura per ogni luogo o regione.

 In antico, quando si usciva a piedi, o al massimo su cavalcature, dalle grandi come dalle piccole città, da Roma come da Interamnia, c'era qualche cosa che limitava gli sforzi ed equilibrava le gare di ogni sorta. Le sproporzioni d'incremento fra una città e l’altra si determinavano con processo assai lento.

 Oggi chi traccia più strade, chi ha mezzi più celeri è destinato a progredire e la mentalità economica prevalente è purtroppo quella dei commessi viaggiatori che si fermano alle stazioni del litorale o a qualche campo di fiera più accessibile nel giro accelerato dei loro affari. Le differenziazioni di sviluppo tra una città e l'altra oggi procedono con ritmo vertiginoso e bene spesso a balzi improvvisi. Bisogna lottare contro siffatti sbandamenti, riguadagnare le posizioni perdute, crearne delle nuove. Non soltanto dunque agli smistamenti interiori della città dovrà provvedere il nuovo piano regolatore, ma anche agli allacciamenti esteriori. Teramo, non è una città radiale, come le nordiche consorelle della pianura lombarda ed emiliana. Ma le ripe, se così posson chiamarsi, fra le quali si trova, sono tanto basse, dolci e facilmente sormontabili che già più d'un ponte le congiunge alle colline prospicienti e queste, alla lor volta, non sono di una natura tanto aspra che non possa in qualche punto esser corretta, nè presentano difficoltà che non si possano ingegnosamente superare. Già lungo la Vezzola, alle falde delle apriche Coste di Sant'Agostino, la strada che vi è stata gettata invita alla formazione di un nuovo quartiere che potrebbe essere il più salubre della città. C'è dunque la possibilità di determinare o, per meglio dire, di agevolare qualche altra corrente, oltre le esistenti. E perciò dobbiamo uscire dalla vecchia cerchia, non rimanere in attesa degli altri, ma andare noi stessi incontro, alle antiche come alle nuove popolazioni, e aprire nuovi varchi, per facilitare i contatti, per convogliare le nuove correnti, per allargare il respiro. Dobbiamo provvedere a che ogni nuova via aperta al transito interno od esterno sia proprio quella voluta dal nuovo spirito di espansione, una via su cui possa correre non soltanto un veicolo, ma una intenzione, un miraggio, una volontà! Teramo, e ne è un segno lo sviluppo automobilistico, per cui ha il primato fra le consorelle abruzzesi, ha queste possibilità, arde impaziente di queste volontà. Soltanto così il piano regolatore della città nostra s'uniformerà a quello che deve essere il suo principio fondamentale: rendere sempre più rispondente al suo eterno destino, ricondurre ognora alla sua perenne giovinezza l'emporio il conciliabolo dell'agro pretuziano.

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II. - L'Agro Pretuziano e l’Interamnia preromana

Felicissimo territorio l’ager praetuttianus celebrato, dagli antichi scrittori perchè ricco d'ogni abbondanza e perchè abitato da un piccolo popolo assai valoroso in guerra detto dei Praetutii, il quale, d'origine sabellica, pare fosse alquanto diverso dai prossimi Piceni o Picentini, tanto è vero che Plinio dà a questo distretto il titolo di regione (Regio Praetuttiana) anzi che di semplice ager.

Conteneva l’agro pretuziano tra varie borgate, tre centri più importanti: Interamnia, oggi Teramo; Castrum Novum, l'odierna Giulianova, e Beregra tuttora d'incerta ubicazione, volendola alcuni a Montorio al Vomano, altri a Civitella del Tronto. Al di là del Vomano si estendeva poi l’ager hatriensis, con l’antichissima e cospicua città di Hatria, oggi Atri, che poi si disse Hatria Picena dai geografi, per distinguerla da quella veneta e le cui sorti furono quasi sempre legate all'antico Pretuzio.

L’Interamnia Praetuttianorum (dal nono volume del «Corpus inscript. latin.» del Mommsen [Theodor Mommsen, Corpus iscriptionum latinarum. Volumen Nonum: Iscriptiones Calabriae, Apuliae, Samii, Sabinorum , Piceni Latinae edidit Theodorus Momsen, Academiae Litterarum Regiae Borussicae, Berolini, Apud Georgium Reimerum, 1883, LXIX, 847, 40cm.] risulta che la parola Praetuttium si scrive con la t doppia dinanzi all'i) fu dunque un conciliabulum ossia un luogo di mercato e di riunione periodica per le popolazioni contermini sparse nelle borgate minori (pagi, vici, castra, castella). Luogo anche di consulta per gli interessi comuni e perciò ebbe anch'esso una costituzione municipale.

Interamnia, come ha dimostrato Francesco Savini nel «Comune teramano» (pag. 44), nei tempi avanti il dominio dei Romani ebbe più che libera vita municipale, anzi un reggimento politico autonomo. Ma quali fossero con precisione i limiti entro i quali fu edificata questa Interamnia preromana non sappiamo, per mancanza di avanzi edilizi di quell'epoca tanto remota. Il Muzi (Dial. 1,5) parla di molte urne cinerarie rinvenute nei pressi della città e nel 1586 perfino nell'ambito della romana Interamnia, cavandosi le fondamenta delle mura della sacrestia nuova della Cattedrale. Ma soltanto nell'aprile dell'anno 1905, durante lo scavo per le fondazioni del nuovo edificio scolastico fuori Porta S.Giorgio, fu scoperta la necropoli preromana in nove tombe venute alla luce tutte fiorenti di un abbondante corredo di fittili di semplice ma elegante fattura, materiale che l’Ispettore onorario Comm. Francesco Savini sapientemente classificò, conservandolo poi nel piccolo Museo archeologico comunale teramano. Non molti anni appresso, scavandosi le fondazioni pel Teatro Apollo e per alcuni villini fuori S.Giorgio, lungo il Viale dei Tigli, furono rinvenute alcune punte di lance o giavellotti appartenenti pure a quell'epoca e conservate nella «Biblioteca Melchiorre Delfico». Epoca veramente non facile a determinarsi, ma indubbiamente anteriore al terzo secolo avanti Cristo.

Nessun interesse ha dunque questa primitiva città pel piano regolatore, il quale potrebbe anche ignorarla, senza tema di manometterne i resti venerandi.

E d'altra parte, se ulteriori rinvenimenti ci sono riserbati, difficilmente avverranno nell'ambito dell'attuale incasato di San Giorgio. Nei recenti escavi fatti in tutta questa zona per le fondazioni della Banca d'Italia, della casa Pacini, dell'edificio per le scuole urbane, del Palazzo del Liceo-Convitto, del Palazzo delle RR. Poste, delle Case dei Mutilati, delle Case degl'Impiegati ed anche ora in quello più profondo per l’erigendo Palazzo del Banco di Napoli, nel centro moderno della città, in un terreno che negli strati inferiori è apparso vergine e di natura breccioso, nulla s’è trovato che possa comunque rivelare le tracce di quella primitiva civiltà. Perciò se abbiamo fatto menzione dell’Interamnia preromana, è stato semplicemente per aggiungere un titolo di più alla vetustà nobilissima di questa Teramo più che millenaria, alla vigilia del suo rinnovamento.

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III. - L’Interamnia dell’epoca romana

Quello che interessa il piano regolatore teramano è l’Interamnia posteriore al terzo secolo avanti Cristo, epoca nella quale, secondo Plinio, Piceni in fidem populi romani venere, richiesero cioè spontaneamente l'amicizia e l’alleanza dei Romani. Ed è di questa Interamnia che esistono oggi gli avanzi degni di esser rispettati e valorizzati.

Attraversata dalla Via Salaria, per un ramo, il quale da Centesimum, ossia dal miglio 98 da Roma, si staccava per Castrum Novum, mentre l’altro proseguiva direttamente per Castrum Truentinum, Interamnia non poteva sfuggire alla attenzione di Roma. La presenza nei copiosi rinvenimenti di monete persino di nummi siciliani, oltre che campani e di città del settentrione, conferma quanto fossero progredite le sue relazioni commerciali nell'epoca picena.

Forse per queste ragioni e per le particolari benemerenze acquistatesi in guerra contro i nemici comuni, Interamnia s'ebbe da Roma un trattamento eccezionale. Caso molto raro, a detta del Mommsen, fu ad un tempo municipio e colonia. Inscritta, come altre città del Piceno, alla tribù Velina, cui era concesso il diritto di voto, per l’opera edilizia dei suoi magistrati, per la munificenza dei suoi patroni a Roma, e specialmente di Q. Poppeio e dei suoi figli, pel concorso dei migliori suoi cittadini, non tardò ad avere un aspetto decoroso ed in qualche punto di vera sontuosità. Ma fu senza dubbio nell'epoca imperiale, e specialmente sotto l'Imperatore Augusto dapprima (da un'epigrafe risulta che vi era in Teramo un tabularius Augusti, ossia un soprintendente al patrimonio privato dell'imperatore) e sotto l’Imperatore Adriano, oriundo della vicina Atri, che raggiunse il massimo splendore, fiorendo di magnifiche fabbriche ed ornandosi del bel teatro, di cui restano cospicui gli avanzi. Al munifico Imperatore, tanto sollecito del risorgimento edilizio di tutto l'impero, i Pretuziani eressero un busto marmoreo che tuttora si conserva nel nostro piccolo Museo e tra le montagne, nelle vicinanze del Gran Sasso, gli fu perfino eretto un tempio: Fanum Hadriani, da cui prese norme l’attuale paese di Fano Adriano. Andò superba così la nostra città non solo del teatro, ma delle terme, del foro e dei templi, fra i quali quello dedicato alla Dea Giunone.

Gli avanzi di questi edifici, e specialmente i poderosi rocchi delle colonne e i ricchi capitelli dimostrano la grandiosità delle costruzioni, l’eccellenza delle maestranze che le eressero e la nobiltà del materiale: pietra delle nostre cave di Joanella impiegata per lo più nei lastricati, travertino di Civitella del Tronto usato all'esterno nelle parti ornamentali, arenarie e laterizi di varia fattura nelle ben compatte cortine e poi, ma in epoca tarda, marmi pregiati e mosaici ed intonaci con pitture ad encausto negli abbellimenti interiori.

L'area di questa città non corrispondeva interamente a quella su cui ora si estende la Teramo odierna. Muzio Muzii, il padre della storia teramana, fu il primo a riconoscerne, nel cinquecento, il perimetro, confermato dai rinvenimenti posteriori e dagli studi degli storici che si posero su quelle tracce: il Palma e il Savini. Esso principiava proprio al confluente dei due fiumi, abbracciando l’area su cui sorsero. nel medioevo il tempio ed il convento della Madonna delle Grazie col relativo piazzale ed estendendosi sino al limite dell'attuale piazza superiore «Vittorio Emanuele», che ne segnava il confine occidentale. Abbracciava, in una parola, gli attuali quartieri di San Leonardo e di Santa Maria a Bitetto, restandone fuori quelli che si dissero di San Giorgio e di Porta Romana. Il giro delle sue mura racchiudeva a ponente le aree in cui sorsero nel medioevo la Cittadella, il Duomo e il Palazzo Vescovile. E poiché la penisola triangolare su cui la città poteva svilupparsi non era un piano inclinato, del tutto uniforme, ma era interrotto da qualche fossato, uno di questi fossati, regolato e reso più profondo artificialmente a scopo di difesa e fatto correre fra un fiume e l’altro, servì a proteggere la città ad occidente, dalla parte della montagna, lungo quella linea su cui si affacciarono nel medioevo la Cittadella, l’Episcopio, il Duomo arcioniano e che sino a non molto tempo fa si chiamava Via del Fosso. Questo fossato divideva la Interamnia romana dal rimanente pianoro, dandole un carattere che si potrebbe dire di insularità.

É dentro questo perimetro che, ovunque si scavi, si rinvengono resti di antichità, mentre in quelle che dalla parte occidentale furono dal decimoterzo secolo in poi le parti nuove della città altro non si trovano che resti medioevali o di secoli posteriori. È dentro questo perimetro che sorsero i maggiori edifizi: i templi, le terme, il teatro, il circo, il foro. Il Foro d'Interamnia, situato in quel tratto della città che si estende longitudinalmente dalla Chiesa di S. Francesco (oggi S.Antonio) nei pressi della piazza del Duomo e, trasversalmente, dalla chiesa suddetta alla strada di S.Giovanni, conteneva, a .giudicare dai colossali reperti, gli edifici pubblici più sontuosi e per le molte colonne ed i capitelli rinvenutivi, si ha ragione di credere che fosse circondato da basiliche, ossia che un portico lo ornasse tutto all'intorno. Per mezzo lo attraversava la via principale, ossia il cardo dell’antica città, il quale corrisponde all'attuale Corso di Porta Reale, detto anche di Porta Madonna, mentre il decumano sarebbe intercorso tra la Porta Melatina e la Chiesa di S. Maria a Bitetto.

Breve perimetro davvero, del quale, si meravigliavano gli stessi interlocutori della dialogata Storia di Teramo di Mutio de’Mutii, nel cinquecento (Dial. 1, 18). Perimetro che può sembrare poca cosa, ma che è rispondente alla limitata popolazione dell'Italia antica e che dipende anche dal fatto che Interamnia aveva anche allora la maggior parte della sua popolazione sparsa per la campagna sino a Fiumicino in numerosi villaggi e ville signorili. Città piccola di proporzioni, ma grande per la forza ed il coraggio dei suoi abitanti. Da questa breve cerchia usciron nelle primavere sacre i giovani a popolar le vicine contrade. Da queste non lunghe mura balzò la gioventù pretuziana a difender Roma e l’Italia dei barbari. E se, alla gola del Salinello, la tradizione addita ancora il guado di Annibale ove il fiero Cartaginese fece vedetta a queste contrade, indica pure la Maceria della Morte, ove la gioventù d’Interamnia, risalendo per la Metella, combattè strenuamente all'ombra del bosco che fu detto Martese. Per cui ben disse Silio Italico: Praetutia pubes laeta laboris, la gioventù pretuziana lieta di sostenere ogni più dura fatica. Ed ancora: et penna, fulmine, et undis hibernis et Achaemenio vetocior arcu, e più veloce dell'ala, e della folgore, e dell’onde invernali e delle frecce persiane (Punicorum, XV, 568-571).

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IV. - La zona archeologica

É questa dunque la zona archeologica più importante della città di Teramo; quella che si deve tener presente nel piano regolatore e trattare con maggior cautela. Non sarà certo possibile rimettere in luce l’antico foro d’Interamnia perchè quasi nulla ne resta, dopo le barbariche distruzioni. Ma nel rimaneggiare questa zona bisogna prevedere le eventuali sorprese, specialmente nel tratto fra le Chiese di S.Francesco, oggi S.Antonio e l'antico Monastero di S.Giovanni, dove nel 1916 furono scoperti gli avanzi di un sontuoso edificio pubblico profondamente illustrato dal Savini. Bisognerà calcolare gli arresti o le correzioni che le fabbriche nuove che vi si volessero innalzare potrebbero subire per improvvisi ritrovamenti.

Ben poco affiora di tanta ricchezza alla superficie, è vero. Ma bisogna considerare che il livello attuale della città, formatosi sui cumuli delle antiche rovine, non è quello della vetusta Interamnia e che tutti i reperti archeologici, come dal cinquecento in poi hanno attestato i più autorevoli ricercatori, si trovano ad una profondità di circa tre metri (2,65), meno in quei punti che subirono posteriori sterramenti o nei quali, nell'epoca barbarica, furono con gli stessi materiali romani rifatti alla meglio gli edifici abbattuti.

Ed è in questa zona archeologica che s'impongono agli studiosi ed agli ideatori del piano regolatore non soltanto queste semplici previsioni e cautele, ma addirittura dei determinati progetti di rivalutazione e di assestamento. Tali progetti devono riguardare in modo particolare tre monumenti che occorre rivalutare e che sono

Il Teatro Romano;

Le Terme;

La Torre Bruciata;

Il Circo.

Il Teatro Romano di Teramo, che gli storici antichi scambiarono per un anfiteatro e che tale fu ritenuto sino al 1918, quando furon scoperte le tracce della frons scenae, si trova, com’è noto, sepolto ad una profondità di m. 4,50 sotto gli edifici che poggiarono, come su solide fondamenta, sulle sue arcate, dal medioevo in poi. Di così cospicuo monumento che in modeste proporzioni ricorda il teatro Marcello di Roma, resta soltanto parte del primo doppio ordine di archi contro il quale poggiavano le volte rampanti in calcestruzzo a sostegno delle gradinate per gli spettatori. Tre di questi archi sono stati liberati completamente, sino alle basi delle colonne, dai secolari interramenti e formano un insieme che dà sufficiente idea dello svolgimento esteriore dell'edificio e della sua imponenza. Una scala ritrovata in situ e sapientemente ricompostavi, i frammenti marmorei della frons scenae completano un quadro che, per quanto frammentario, è di grande interesse e significazione.

Che fare di questo monumento?

Abbattere tutte le case che si allineano a semicerchio sulle sue arcate e rimetterlo in piena luce, oppure accontentarsi di ulteriori saggi ed assestamenti? Il Comm. Francesco Savini, nella sua illuminata saggezza, tracciò or sono pochi anni, nel 1921, in un articolo pubblicato negli “Atti delle’R. Accademia dei Lincei” quello che potrebbe dirsi il programma minimo, o iniziale, di tale impresa : riscavare cioè l'orchestra, il pulpitum e la parte inferiore della frons scenae e metter poi tutto in evidenza in un ambulacro sotterraneo, che si potrebbe praticare al di sotto di un passaggio pensile a travature metalliche, sulla via e nella piazza detta tuttora impropriamente dell'Anfiteatro. Si potrebbe aggiungere: prima di avventurarsi ad un totale ed assai dispendioso scoprimento sarebbe consigliabile tentare di raggiungere il monumento dalla parte di mezzogiorno, dove sono soltanto orti o piccole casette, allo scopo di metterne in evidenza tutta la cinta esteriore. Recentemente il teatro romano di Teramo è stato esaminato e studiato, architettonicamente da due giovani ingegneri teramani, i signori Sigismondo Montani e Andrea Cardellini (1) [(1) Ved. N. 1-2, Gennaio-Febbraio corr. Anno [1934], del Bollettino, in “Alcune considerazioni sul Teatro Romano di Teramo”, (N. d. R.)], i quali con la guida degli studi fatti dal Savini, ma in base anche alle loro dirette osservazioni e ai loro accuratissimi rilievi, sono riusciti a determinare graficamente in quattro bellissime tavole la struttura dell'edificio sia per la parte già messa in luce che per quello tuttora interrata o perduta. Uno studio che è stato fatto a scopo di divulgazione e di valorizzazione di un monumento poco conosciuto dal pubblico e che ci auguriamo possa presto servire di guida al graduale scoprimento.

Qualunque sia del resto la decisione che sarà presa al riguardo, l’importante è dar principio ad un tale ordine di lavori; ed anche nello stato attuale l’importante è mettere in condizioni di visibilità il monumento, assicurarvi la incolumità dei visitatori, curarne la pulizia e la manutenzione, dare a tutto l'ambiente un decoro al quale purtroppo non s'è ancora provveduto.

Le Thermae, che alcuni scrittori di storia teramana ritennero situate su di una vicina collina, in una località detta tuttora “Fontana della Regina”, ma che il Muzii, col suo profondo intuito (Dial. 1, 7), sin dal cinquecento sospettò nell'interno della città, furon rinvenute nel novembre del 1923, non lungi dal Teatro Romano, accosto all'attuale Palazzo Municipale. Invano si tentò di salvarle. Sull'ampia e bella piscina natatoria, tutta pavimentata di un testaceum a guisa di battuto veneziano, furono gettate le fondazioni della casina comunale attaccata al Palazzo Municipale.

Ed ecco che i problemi archeologici si riconnettono, quasi per una Nemesi ,fatale, a quelli agitati nel piano regolatore. L'abbattimento ormai generalmente reclamato di quella casina, tanto inopportunamente ricostruita, porterebbe a questo triplice risultato: agevolazione del transito in una svolta pericolosa all'imbocco del Corso del Trivio, isolamento della Loggia medioevale del Comune, scoprimento delle antiche Terme di Interamnia.

Un'altra prova che nel piano regolatore teramano i problemi archeologici ed artistici sono intimamente connessi a quelli del transito e dell'igiene, ci vien dato dalla così detta Torre Bruciata. È questo un singolare edifizio romano ad opus quadratura, una poderosa torre costruita di blocchi ciclopici, anche essa nascosta agli occhi del pubblico, perchè nell'interno di un grande orto privato. Si tratta di un bastione romano della città ai tempi della repubblica, utilizzato nell'alto medioevo come torre campanaria della primitiva cattedrale aprutina: Sancta Maria Interamnensis, che tuttora gli si appoggia con l’ultima cappella superstite di San Getulio, detta poi di Sant'Anna de’Pompetti.

Negli studi preliminari del piano regolatore è prevista la trasformazione in pubblica piazza del grande orto Pompetti, piazza che si presterebbe ottimamente ad uno dei mercati della città. Trasformazione dunque che non solo agevolerebbe il commercio, il transito e l'igiene della città, ma metterebbe in luce un resto assai cospicuo dell'antica Interamnia, intimamente legato alla primitiva cattedrale bizantina e poi romanica di Teramo medioevale.

Ma ancora più evidente risulta questo legame tra i problemi di viabilità e quelli archeologici ed estetici nel piano regolatore, quando si pensi ad un altro rudere romano che andrebbe esplorato e che forse ci riserva grandi sorprese: il Circo o Anfiteatro. Coloro che da fanciulli hanno frequentato le vecchie scuole elementari di Teramo ricorderanno che nell’orticello di quell'istituto vi sono le tracce di una costruzione molto interessante e curiosa. Si tratta di un muro circolare a mattoni il quale abbraccia per un terzo l’orticello suddetto e poi si continua nell'orto del Seminario. Lungo questo semicerchio, e sempre alla stessa altezza nel muro, si susseguono dei fori accuratamente praticativi ab antiquo, con fondi scorrevoli di mattonelle, quasi per agevolare il canapo che dovesse scorrervi a manovrazione di un velario. Un anfiteatro od un circo? Nessuno sinora ha saputo penetrare questo mistero. Il Palma (Vol. I, cap. 5) crede che si tratti degli avanzi del teatro, appunto perchè ai suoi tempi si riteneva che il teatro romano, di cui abbiamo già parlato, fosse un anfiteatro. Oggi sono da invertire le parti e la ragione porterebbe ad ubicare proprio a questo luogo se non l’anfiteatro, che sarebbe di troppo per una piccola città come Interamnia, almeno il circo, che la nostra città doveva avere allora come ha pur oggi il suo polisportivo.

Comunque, il rudere occupa un posto non trascurabile nella zona archeologica della città di Teramo e provvidenziale perciò al suo ulteriore scoprimento sarà la strada che, ad isolamento del Duomo, si pensa di aprire tra quelle due piazze e sulla importanza della quale, anche sotto il punto di vista del transito, occorrerà tornare nella trattazione di un altro grande problema: l'isolamento dei principali edifici monumentali del medioevo.

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V - Distruzioni e rifacimenti della città nell'alto medioevo

La romana Interamnia viveva tranquillamente la sua modesta vita nel pacifico ordinamento dell'impero, quando subì, al principio del secolo quinto, una quasi totale distruzione, per opera dei barbari. Furono i Goti, i terribili incendiarii, a darle il primo gravissimo colpo. Gli storici marchegiani narrano che nel 410 Alarico distrusse ben 25 città romane del Piceno. E a tale epoca va perciò attribuita la prima distruzione di Interamnia, attestata dal fatto che gli strati più inferiori delle sue rovine sono quelli che serbano tracce d'incendio. Quando si pensi poi che a tale epoca si ricollega pure la prima distruzione di Teate, oggi Chieti, bisogna dedurne che anche il territorio fra il Tronto e la Pescara, ossia l’ager praetuttianus, con le sue principali città, dovette esser devastato con non minor furia dei territori limitrofi.

Passato quel terribile flagello gli Interamniti superstiti, ossia i cives (probabilmente anche qui, come altrove, gli schiavi erano passati ad Alarico, ingrossandone l’esercito e contribuendo alla distruzione) si posero a riparare alla meglio i danni subiti. La città risorse, ma non più bella e ricca, sulle sue stesse rovine, nell'ambito dell'antico perimetro.  «Lo stato in cui si sono trovati i resti di alcuni edifici romani, avverte in un suo studio il Savini, dimostra che i grandiosi edifici originari, abbattuti da barbari, furon poco dopo rifatti alla meglio, con massi presi qua e là e destinati ad altri usi, che certo, nelle condizioni in cui dopo tanta rovina eran caduti gli Interamniti, dovettero essere assai più modesti».

Dopo questa prima distruzione fu dunque ricostruita alla meglio la nostra città sulle sue rovine, ma con diverso andamento delle vie e conseguentemente con diversi allineamenti degli edifici come attestano i resti dei muri e dei lastricati venuti alla luce. Pare inoltre che risorgesse entro limiti più ristretti, perchè la parte estrema del confluente rimase un denudato pianoro che poi fu detto pianura di Sant'Angelo dalla badia benedettina di Sant'Angelo delle Donne, oggi Chiesa e Convento della Madonna delle Grazie. Un altro fosso fu allora praticato, a scopo di difesa, tra i due fiumi, fuori dell'odierna Porta Reale e si costituì così il castrum, di cui parla nel 601 S. Gregorio Magno nella sua lettera al vescovo Passivo.

Più che di rifare una città s'ebbe dunque cura di costruire un campo trincerato, in quei tempi calamitosi. Da ultimo il luogo perdette perfino l'antico nome e non si chiamò più Interamnia, ma Aprutium, corruzione del classico nome Praetutium già indicante la regione e tale denominazione pare sia durata per più di cinque secoli, e precisamente dal secolo sesto sino al decimosecondo.

Trascorsero quasi duecent'anni di vita oscura, rimasta avvolta nelle più fitte tenebre, ed Aprutium era entrato a far parte del territorio di Fermo, quando apparvero i Longobardi. Non si sa con precisione in che anno misero piede nel territorio aprutino. Ma se nel 580 avevano invaso il territorio fermano, è logico pensare che poco appresso seguissero scorrerie nel nostro. Un magnifico elmo longobardo di bronzo dorato trovato a Giulianova e conservato ora in un museo di Berlino, elmo da attribuirsi al VI-VII secolo, perchè negli intagli vi figura in strano sincretismo tra segni pagani la croce di Cristo, ci dimostra che l’ingresso dei nuovi barbari nella nostra regione non fu senza resistenza, se uno dei loro capi (presso i Longobardi soltanto i comandanti si coprivano in guerra con l’elmo) trovò la morte in queste contrade. Tuttavia i Longobardi, che erano scesi in Italia per prendervi stabile dimora, non fecero gran guasto alla nostra città ed è da non rigettarsi interamente l’opinione del Muzii, il quale con felice intuizione (Dial. 1, 12) asserì che i Longobardi non distrussero la città di Teramo. Bisogna però notare che questi vi si stanziarono molto tardi, avendola definitivamente occupata, come si è potuto accertare, soltanto tra il 740 e il 763, allorchè Aprutium fu unita con Fermo al ducato di Spoleto. Ma che fossero stati i Longobardi fra i primi a ricostruirla e perfino a restaurarla, come suppone il Muzii, è forse un correr troppo, perchè già un conte Anio, od Anione, romano di razza e di nome, aveva ottenuto nel 602 da S. Gregorio Magno, pontefice di romana grandezza ed avverso ai Longobardi, anche perchè ariani, la consacrazione della prima chiesa da lui fondata. Tra il 580, data della prima apparizione dei Longobardi nel territorio fermano e il 603, data della seconda lettera di quel santo Padre al vescovo Passivo, corrono soli ventidue anni, sicchè la frase: Bene novit fraternitas vestra, quam longo sit tempore Aprutium pastorali solticitudine destitutum, allude evidentemente a tristi vicende di tempi anteriori alle scorrerie longobarde; ma non è escluso che anche queste potessero aver avuto la loro parte nella desolazione della chiesa teramana, quando si pensi che i Longobardi ariani allorchè invasero nel 580 il territorio di Fermo, vi fecero prigionieri i chierici, dovuti poi riscattare a peso di argenti di quella chiesa.

Per circa quattro secoli dall'occupazione longobarda la città era rimasta se non tranquilla, per lo meno inalterata, quando a mezzo il secolo XII sopravvenne improvvisa la fatale ruina che l’adeguò al suolo. Non cataclisma tellurico, che qui a Teramo non ebber mai gran possa i terremoti, ma la mano degli uomini le inflisse l'immane disastro. Teramo viveva tranquilla sotto il mite potere temporale del vescovo Guido II e il contado parimenti prosperava sotto il potente Roberto, conte di Apruzio, quando si scatenò su queste contrade la furia normanna.

Fu a metterla a ferro e fuoco il conte Roberto di Loretello, ribelle al suo Re, come vuole il Palma o non piuttosto un altro Roberto, cancelliere del gran Re Ruggero, appositamente spedito a tale impresa, come sostiene il Rivera? È questione estranea ai fini di questa succinta e rapida esposizione. La verità é che il regno normanno non poteva dirsi compiuto senza il raggiungimento della linea del Tronto e che l’annessione di Teramo era indispensabile alla definitiva compagine e alla tranquillità del reame. Verità ben intuita dal Muzi (Dial. 1,16) quando dice che Ruggero voleva «accrescere agli stati suoi quest'ultima parte, che dall'antipapa Anacleto gli era stata conceduta, la quale sino a quel tempo ubbidiva agli imperatori occidentali».Tale ineluttabilità di eventi fu ben compresa dal vescovo Guido II che sconsigliò ai Teramani la resistenza, chè anzi, ostinandosi essi nella opposizione e nella difesa, si allontanò dalla città, pronunciando le amare parole: Super vos, et super filios vestros. Fiera, eroica la resistenza dei Teramani. Ma da ultimo, correva l'anno 1153, la città fu presa e «abbruciata, e spianata tutta - racconta il Muzii - fuorchè due cappelle della Chiesa Cattedrale, sopra una delle quali era ascoso il corpo del glorioso S. Berardo, che per miracolo di Dio, piamente credendo, non furono tocche dal fuoco». Resti venerandi della antica Santa Maria Interamnensis che tuttora si conservano nella già mentovata chiesetta di S. Anna dei Pompetti con l’antica Torre Abbruciata, già pure descritta, la quale conserva ancora evidenti le tracce di quel vasto incendio.

Ottenuta dal nuovo Re Guglielmo la concessione di riedificare la città, il vescovo Guido lasciò Castel S. Flaviano (poi Giulianova), ove s'era riparato, e tornò a Teramo a rianimare la popolazione superstite, la quale s'era attendata nella pianura che poi si disse di Sant'Angelo (oggi piano della Madonna delle Grazie). La persuase a rientrare in città e a ricostruire alla meglio le abitazioni. Intanto, poi che Sancta Maria Interamnensis non si sarebbe potuta riedificare senza grande spesa, pensò di trasportare la cattedrale più a settentrione, utilizzando un'altra chiesa che, con Santa Maria a Bitetto, era scampata alla totale rovina e che con poco dispendio si poteva risarcire, come asseriscono il Muzii e il Palma, o costruendola dalle fondamenta, come sostiene il Savini (Il Duomo di Teramo, pag. 11). Altra questione questa che si potrà risolvere quando si avrà modo di studiare attentamente il materiale frammentario venuto alla luce nei recenti restauri del Duomo. Per ora altro non possiamo dire che in quella tumultuaria costruzione furono utilizzati i resti dei prossimi edifici romani, ossia del Teatro e delle Terme, come lo dimostrano le due belle colonne marmoree rimesse in luce nel 1923 da Francesco Savini e le pietre sagomate e la panoplia infisse nei pilastri e ritrovatesi oggi, dopo i restauri, allo stesso posto in cui le vide il Muzi nel cinquecento (Dial. 1,7).

Fu attribuito al vescovo Guido il disegno di riaccorciar Teramo dalla parte di mare ed ampliarla da quella dei monti. Ma se la tradizione riferisce che la popolazione si attendò, dopo la rovina del 1153, nella pianura che poi fu detta di Sant'Angelo; è evidente che il raccorciamento era avvenuto precedentemente. Dopo l'invasione dei Goti e degli altri barbari passati per queste contrade, l'estremo lembo del confluente, con ripe poco alte e indifendibili, fu abbandonato istintivamente e fu anzi staccato dal pianoro superiore col fossato aperto tra i due fiumi.

Risorse dunque le città, ma con le tracce del danno patito, con l'aspetto misero, meschino delle sue case umili e mal fondate. Tracce che sono tuttora evidenti ai nostri tempi e furono già avvertite dal Palma (Vol. 1, c. XXX): “di qui quella mancanza di proporzionate fondamenta, quell'insufficiente mistura di calce, quel grossolano e povero modo di fabbricare, che saltano agli occhi ogni qual volta si ha bisogno di diroccare qualche casa non ancora più solidamente riedificata, e che danno a divedere una necessità la quale ebbesi un giorno di rialzare le abitazioni con mezzi insufficienti”. La prima risurrezione d'Interamnia, dopo l'incendio gotico, aveva elevato il piano della città di circa mezzo metro. La seconda risurrezione, dopo l'incendio normanno, la portò a m. 2,65. La differenza di livello dunque tra l’uno e l'altro strato è di almeno due metri!

In quello stesso anno 1153, quasi all'estrema punta del confluente, in fondo al pianoro che aveva dato ricetto agli Interamniti scampati all'incendio normanno, un Teodino, come si rivela da un preziosa lapide scoperta ed illustrata dal Savini nel 1892, faceva costruire pro remedio animae suae, il tempio che si disse dapprima, per l’annesso convento, di Sant'Angelo delle Donne e fu poi della Madonna delle Grazie, protettrice oggi della città di Teramo ed oggetto di universale devozione.

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VI. - Osservazioni topografiche

Giunti a questo punto, è necessario gettare uno sguardo alla particolare conformazione del suolo, su cui sorge la nostra Teramo, allo scopo di comprenderne appieno le vicende edilizie attraverso i secoli. Al confluente tra due ampie fiumare: la Vezzola, che è un torrente vero e proprio, a settentrione, e il Tordino, che è d'acqua perenne, a mezzodì, si estende un pianoro, attorno alle cui ripe si è venuta formando una zona più bassa di terreno dovuto alle alluvioni e alle frane, e tenuto oggi ad orti assai ben coltivati. Ha questo pianoro la forma di un triangolo isoscele, con la base ad occidente, e non più largo di 700 metri, là dove propriamente incomincia la città, ossia all'imbocco del Corso di San Giorgio. Va poi gradatamente restringendosi, tanto che al piazzale della Madonna delle Grazie misura soltanto 120 metri. Termina infine dietro il convento dei Minori Osservanti in forma rotondeggiante. Quivi giravano le mura dell'antica Interamnia, delle quali apparvero recentemente non dubbie vestigia. Oggi al di sotto di questo vertice si estende il Camposanto Vecchio ed il terreno continua oltre, quasi in piano, sino al punto preciso della confluenza e continuerà forse ancora lentamente nei secoli, se è vero che i confluenti dei fiumi avanzano come le loro foci. Per questa particolare conformazione del suo suolo, anche la città ha forma triangolare. Vista dall'alto delle colline circostanti si presenta nella caratteristica forma di uno strapizze, che è, come è noto, un indumento femminile particolare di questa regione.

Il pianoro scende ad occidente da una zona che non si può dire più di montagna perchè è prevalentemente collinosa e si protende ad oriente, verso il mare, da cui dista soli 25 chilometri. Si trova dunque in un punto intermedio tra la marina e la montagna e mentre a levante non ha che un solo unico sbocco al mare, lungo la vallata del Tordino, a ponente, invece, varie strade vengono a sboccare da opposte bande nell'ampio piazzale che le accoglie: nel mezzo la strada di Montorio che porta al Gran Sasso d'Italia e a Roma, quella di Torricella che allaccia Teramo con i paesi del gruppo dei Monti della Laga. Ai bordi, la bella strada per Ascoli da una parte e quella per Penne dall'altra, strada, quest’ultima, che fu detta un tempo la Viscerale, perchè adduceva alle parti più interne della provincia, nel secondo circondario.

Per non sconfinare dal campo topografico vero e proprio, rientriamo nell'ambito della città ed osserviamo ancora: il suolo su cui sorge la città si protende da occidente ad oriente per oltre un chilometro. Infatti dall'ingresso di S. Giorgio sino a Porta Reale il Corso è lungo 937 metri. Comprendendovi il tratto sino alla Madonna delle Grazie si hanno metri 1157, ossia più di un chilometro. Teramo dunque è più lunga che larga e tale sarà sempre a causa dei fiumi che la fiancheggiano, a meno che la città non abbia ad estendersi un giorno anche al di là della Vezzola, alle falde delle amene Coste di Sant'Agostino, tanto arrise dal sole.

Un'altra osservazione: la nostra Teramo non è tormentata da quelle accidentalità di terreno che rendono faticose o addirittura impervie tante sue consorelle abruzzesi. A prima vista, si presenta in una planimetria quasi perfetta, con grande agevolezza nel passare da un punto all'altro, per le vie che sono ampie e belle e che lo saran maggiormente quando verranno in qualche punto rettificate e più curate.

Tuttavia non mancano dislivelli.

Il forestiere ed anche il cittadino non abituato a tante osservazioni non avverte che il suolo su cui posa Teramo è un piano inclinato. Nessuno, andando da Porta Reale a Porta S. Giorgio, si accorge di salire. Eppure, per quanto insensibile ed inavvertita, la differenza di livello tra i due punti estremi della città è rilevante. All'ingresso di S. Giorgio siamo ad una quota di 274 metri, a Porta Reale di 255, con una differenza dunque di più che 18 metri, calcolandovi le frazioni. L'altezza di 265 metri che le guide e i trattati geografici danno alla nostra Teramo è presa dal mezzo della città, ossia nella Piazza Maggiore.

Ricavo questi dati dall’accuratissimo Piano quotato della città di Teramo e suburbi eseguito dai geometri Filippo Lucchese e Roberto Ponziano per incarico del Municipio e depositato nell'Ufficio Tecnico Comunale. Esso ci consente di avvalorare un'altra modesta osservazione. Questo pianoro non è inclinato come potrebbe esserlo un perfetto tavoliere. Vi sono dei rialti e degli avvallamenti notevolissimi. Il lato meridionale della città, per esempio, degrada, per sua costituzione naturale, in una specie di scaglione, pel quale attraverso varie strade piuttosto ripide, si scende al Corso di Porta Romana, che si trova a quasi otto metri (m. 7,79) al di sotto della Piazza Maggiore. Altre differenze di livello si hanno alla Cittadella e alla Montagnola. La piazza della Cittadella (1a Cittarella), aperta disordinatamente sulle rovine dell'antica fortezza, è a m. 2,60 sul piano della Piazza Maggiore. La Montagnola tra le case Ciotti ed Urbani, si eleva soltanto a m. 1,88 in riferimento alla piazza suddetta; ma pel fatto che le strade che la fiancheggiano s'avvallano sensibilmente appare forse come il punto più eminente della città, tanto che, di fronte alla Chiesa di Santo Spirito, viene a trovarsi ad un'altezza di 12 metri. La sua origine pare dovuta a naturale costituzione del suolo, che è un conglomerato breccioso compatto, e sarebbe la parte più alta e terminale di tutto il ciglione che, a cominciare dalla Cittadella, attraverso l’Episcopio, la Cattedrale e il Seminario, costeggiava l’antico fossato, detto poi Via del Fosso, quando fu riempito.

Queste le linee generali e le caratteristiche speciali del suolo su cui poggia la città di Teramo. Per quanto poi riguarda il sottosuolo è bene avvertire ch’esso è breccioso e di carattere alluvionale e che ad una profondità variabile, secondo i diversi punti della città, si trova la falda d'acqua che alimentava i pozzi dai quali gli abitanti attingevano l’acqua da bere, prima della conduttura. Si osservi infine che per questa posizione tra due fiumi, su di un terreno breccioso, e tra i brecciai dei greti che la fiancheggiano, Teramo non ha subito danni dai terremoti, neppure da quelli tanto disastrosi per gli Abruzzi del 1703 e del 1915.

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VII. - Lo sviluppo edilizio nel basso Medioevo

Con l'annessione al Regno Normanno, che fu poi, attraverso varie vicende, il Regno delle Due Sicilie, Teramo divenne città di confine, vera porta regni. Dice il Muzii, riferendosi al secolo XIV, ma facendo una osservazione che può avere valore retrospettivo: «a quei tempi questa città era la più cara tenuta da tutte le città e luoghi di Apruzzo; si per essere posta nell'entrata del Regno; sì anco per essere in sè stessa forte secondo il combattere di quei tempi ed anco per esservi una ben munita fortezza detta per più proprio nome la Cittadella». (Dial. III, 2). Triste privilegio, però, che determinò per la nostra città un continuo travaglio il quale ebbe termine soltanto dopo il 1860, con la unificazione d'Italia.

Ed infatti non fu davvero questa posizione di città di confine che le consentì di prosperare nei commerci e nelle industrie, di crescer nella popolazione, di svilupparsi dal lato edilizio. Tali risorse la città di Teramo non le derivò da particolari cure di governi, ma anche allora, come sempre, le trovò in sé stessa e ben più ampie e feconde sarebbero state, e più evidenti ce ne apparirebbero al giorno d'oggi le tracce, se la sua graduale ascensione non fosse stata ostacolata dalle tristissime vicende dei tempi. Teramo cadeva negli artigli della monarchia normanna, proprio quando i comuni della Italia settentrionale s'affrancavano dagli imperatori di Germania. Rimaneva soffocata nelle spire dell'idra feudale, quando altrove sorgevano i liberi comuni.

Le fiscali spogliazioni, le insidie baronali, i torbidi del Regno, le incursioni delle orde mercenarie, le requisizioni ed imposizioni d’ogni sorta in tempo di guerra, le lotte delle fazioni e tanti altri mali che seguirono per quasi sei secoli compirono la grande rovina. Soltanto nel secolo XIII, ed è una prova di queste nostre asserzioni, in un periodo cioè in cui s'ebbe una larva di libertà, al tempo cioè del governo podestarile (1207‑1292), la città attraversò un periodo abbastanza prospero di vita municipale e cominciò ad avanzare nello sviluppo edilizio.

Dopo l’incendio del 1153, in epoca che non è possibile determinare con date sicure, ma che può riferirsi alla fine del secolo decimosecondo, per i benefici effetti delle esortazioni del vescovo Guido II e degli altri che immediatamente gli successero, la città cominciò a ripopolarsi, a risorgere, ad ampliarsi. Al di là del fossato, che difendeva la città dalla parte di ponente, si estendeva tutto un piano ancor nudo di fabbricati. Su quel piano si ampliò la nuova Teramo e, come risulta dalle antiche carte, il nuovo ambito fu detto terra nova per distinguerlo dalla città vecchia che fu detta terra vetus. Spetta al Muzii il merito di averci serbata questa memoria, che forse nel volger dei tempi, sarebbe andata perduta: “ove ora sono le chiese di S. Spirito, di S. Domenico, di S. Benedetto, di S. Matteo, di S. Agostino, la strada di Porta Romana, e tutta la parte superiore sopra la piazza del mercato è città nuova”. (Dial. 1,18).

Ma fu soltanto tra il secolo XIII e il XIV che il risveglio edilizio teramano si accentuò in maggiore misura. Più che alle abitazioni private, le mire dei magistrati e dei cittadini furori rivolte agli edifici pubblici di carattere civico e religioso, tanto nel l'ambito della terra vecchia che in quello della terra nuova.

Si tracciavano già le linee della nuova città, ma non si trascurava la vecchia. Ed infatti nell'interno della terra vetus si poneva mano nel 1227, cioè l’anno dopo la morte del Serafico, alla Chiesa di S. Francesco, detta oggi di S. Antonio. Sorgeva la Loggia Comunale che dalle antiche carte risulta già costruita nel 1327. Il vescovo Niccolò degli Arcioni, che appare propulsore di opere edilizie e di pie istituzioni nella Teramo del suo tempo, ingrandiva nel 1332 la Cattedrale dal lato occidentale con l’aggiunta di tre navate in stile gotico, sistemava ad oriente la facciata del vecchio Duomo col magnifico portale di Adeodato romano e probabilmente dallo stesso artefice faceva ornare di graziose logge il Palazzo Vescovile. Veniva fondato inoltre nel 1384 il Convento delle Benedettine di S. Giovanni e sin dal 1323 un benemerito cittadino, Bartolomeo di Zalfone, ricostruiva ed ampliava l’Ospedale che si disse di S. Antonio Abate. Si dava infine sicurezza alla città vecchia, munendola di un castello, che fu detto la Cittadella e di cui si trova la prima menzione appunto nel secolo decimoquarto.

Sorgevano intanto edifici di qualche importanza anche nella “terra nova”, per lo più chiese: la Chiesa di S. Domenico fondata nel 1327, la Chiesa di S. Benedetto, detta poi dei Cappuccini, della quale si ha notizia la prima volta in uno strumento del 1362, S. Agostino già esistente nel 1362, la Misericordia eretta dopo la peste del 1348, alle quali s'aggiunse nel secolo decimoquinto quella dedicata all'Apostolo S. Matteo. Tutte queste Chiese, meno quella della Misericordia, ebbero annesso un convento con vasti orti all'intorno. Ed intanto alcuni privati venivano acquistando in questi paraggi dei casareni, ossia delle aree fabbricabili e li cingevano di muri per segno di proprietà. V

Ma come avventurarsi a costruir fuori d’ogni difesa, a monte della cittadella e del fossato? Ecco perchè le case medioevali superstiti nella “terra nova”, specialmente nel Corso di Porta Romana, non sono di data molto antica, trovandosene una segnata col millesimo 1475. Si dovette attendere che, colmato il fossato che fiancheggiava la Cittadella, l'episcopio e la cattedrale, se ne scavasse uno nuovo molto più avanti, per difender la terra nova dal lato occidentale e che, abbandonata la vecchia cittadella, se ne erigesse un’altra a capo della città, ove era la Porta di S. Giorgio. Impresa che fu iniziata verso l’anno 1410 a cura del Regio Governo e per contribuzione della città e fu poi compiuta dal duca d'Atri Giosia Acquaviva, resosi signore di Teramo, al risorger del partito aragonese. Cittadella di cui il Muzii narra meraviglie, ma che fu rasa al suolo, a furor di popolo, nel 1462, quando i Teramani riuscirono a liberarsi dell'incomodo signore. Restarono così il fossato e le mura a difender la città da quel lato. Al mantenimento di queste opere di difesa s'erano obbligati i cittadini con regolari prestazioni d'opere consacrate nei documenti.

Con questo fossato a ponente, fuori la Porta S. Giorgio, e con l’altro a levante, tra le mura e la Madonna delle Grazie, intercorrenti entrambi fra i due fiumi, che la difendevan dall’altre due bande, la città rimaneva perfettamente isolata. Questo aspetto di insularità mantenne sino ai tempi moderni quando furono colmati i due fossati, dei quali quello detto dei Cappuccini abbiamo visto definitivamente riempito soltanto ai nostri giorni.

La città così ampliata fu divisa in sei sestieri che furono: S. Leonardo, S. Antonio, S. Maria a Bitetto e Santo Spirito nella terra vecchia; Santa Croce e San Giorgio nella terra nova. Sei porte, purtroppo non più esistenti, munite di barbacani, davano accesso alla città. Così isolata tra i fiumi ed i fossati, chiusa nel doppio giro delle sue mura, irta di torri chiesastiche e gentilizie, Teramo doveva avere allora davvero un aspetto caratteristico, come risulta dal panorama stilizzato nei primi decenni del quattrocento da Jacobello del Fiore in fondo al suo polittico e dalle antiche stampe conservate nella Biblioteca “Melchiorre Delfico”. Amoenissima et pulcherrima, così come la vide intorno al 1470 ed entusiasticamente la descrisse il Campano, il famoso umanista, detto l’Episcopus Aprutinus, nella lettera riportata dal Muzii (Dial. V, 4) e da tutti gli storici posteriori, lettera che è piacevolissima fonte per tutte le notizie riguardanti la città nostra alla fine del Medioevo.

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VIII. - La «terra nova» di Teramo dal principio dell’età moderna sino all’unità d'Italia

Chi osservi la veduta della città di Teramo del seicento, la quale si conserva nella biblioteca “Melchiorre Delfico ed è riprodotta in queste pagine, vedrà che in piena età moderna la terra nova non era ancora interamente coperta di abitazioni, ma vi predominavan gli orti dei conventi: di S. Agostino, di S. Matteo, dei Cappuccini e recinti di terre tenute a giardino o ad ortaggio di privati signori. Questa condizione era evidentissima sino a tempi che non siamo in pochi qui a Teramo a ricordare ed è evidente anche al giorno d'oggi.

Nella “terra nova” le case d'abitazione s'addensarono da principio soltanto lungo le due vie principali: il Corso di Porta Romana e il Corso di S. Giorgio. In seguito si vennero formando nuove strade parallelamente alle suddette e quelle indispensabili per accordarle.

Non c'era allora un piano regolatore, ma gli statuti e le ordinanze municipali sopperivano a tale difetto sicchè, data anche la bella e comoda disposizione del terreno, la città nuova sorse con vie abbastanza ampie e diritte, con piazze e larghi bene inquadrati. Dovette avere da principio maggiore importanza il Corso di Porta Romana oggi assai decaduto, pel fatto che allora era la via da cui si usciva per Roma, quando sulla ripa sinistra non ancor devastata del Tordino poteva appoggiarsi immediatamente la strada che menava a Montorio.

Il Corso S. Giorgio, staccandosi dalla Piazza Maggiore, raggiungeva con un bel rettilineo quella che per tanto tempo s'era detta la porta Pretosa, ossia pietrosa, perchè da essa s'introducevano in città le pietre travertine delle cave di Civitella del Tronto (Savini, Com. ter. pag. 295). Per essere la diretta prosecuzione del cardo dell'antica Interamnia, e dopo che la strada per Roma dovette poggiare più a monte per le frane della ripa sinistra del Tordino, acquistò l’importanza che serba tuttora. Privo di costruzioni monumentali, perchè di recente formazione, presenta soltanto due edifici di qualche interesse storico: il Convento e la Chiesa di S. Matteo irriconoscibili sotto i rifacimenti posteriori e l’antica casa dei Delfico, con architravi monolitici ornati di stemmi e di leggende e datati: 1550 sulla facciata anteriore e 1552 nella posteriore.

Tra il secolo decimosesto e il decimottavo avviene il lento progredimento edilizio della “terra nova”. Sorgono lungo il Corso S. Giorgio e le strade laterali edifici per lo più di privata abitazione proporzionati alle modeste risorse dei tempi ed al gusto predominante dell'epoca: case di un sobrio barocco, quasi tutte ad un solo piano, con stipiti ed architravi di travertino di Civitella del Tronto ai portoni e alle finestre e balconi rigonfi in ferro battuto. Quasi tutte in questo stile, e così basse, erano le case che fiancheggiavano il corso sino al principio del secolo passato. Le sopraelevazioni e i rifacimenti posteriori mutarono interamente il loro aspetto. Del vecchio tipo se ne ritrovano oggi superstiti pochissime: quella Spagnoli e quella Badia lungo il Corso S. Giorgio e quelle Bernardi-Petrini e Rubini lungo il Corso di Porta Reale.

Non ostante la sua ampiezza, il Corso aveva ancora un aspetto meschino, specialmente per la brutta pavimentazione a ciottoli, senza marciapiedi, con carreggiata concava e cunetta centrale e per le abitudini ancora troppo paesane degli abitanti. Nei giorni di mercato si legavano i somieri agli anelli infissi nelle case e i contadini sostavano nelle osterie (le ultime le abbiamo viste scomparire ai nostri tempi) che stavano nei bassi ora occupati da eleganti negozi. Una fila di angusti portichetti fiancheggiava inoltre tanto il Corso S. Giorgio che quello di Porta Reale: comodo ricetto al commercio ambulante e riparo contro le intemperie alle genti del contado nei giorni di fiera. Date le condizioni tutt'altro che lodevoli della nettezza urbana di quei tempi e la nessuna cura di manutenzione dei fabbricati, quei portici a lungo andare avevano acquistato un aspetto indecentissimo per cui Melchiorre Delfico, dopo il 1823, anno in cui si ridusse definitivamente nella città natale, pensò di abbatterli. Giova ripeter qui quanto a tale proposito mi è occorso di scrivere recentemente altrove: “l'opera più utile e più bella da lui compiuta per la sua Teramo è quella dell'ampliamento della via principale, di quel Corso che attraversa per quasi un chilometro la città e che, almeno per qualche tratto, dovrebbe portare il suo nome. Egli lo liberò dei luridi portichetti che lo fiancheggiavano, ingombrandolo, e per compiere con sollecitudine quest'opera di risanamento e di decoro pubblico giunse al punto di concorrervi finanziariamente, comprando alcune case e sostenendone a sue spese le opere di arretramento. Teramo era già uscita da qualche tempo dal suo asserragliamento medioevale. E il Delfico volle dare più ampio respiro alle sue piazze e alle sue vie. Iniziò così quell'opera di ampliamento del Corso teramano (il più maestoso che vi sia in Abruzzo), quell'opera che sarà compiuta fra breve, ad un secolo dalla morte del Delfico, con l’abbattimento del superstite porticato basso, ultimo residuo, nel bel mezzo della città, dell'angustia e della meschinità medioevale. Possano i Teramani, per questa via così ampliata ed abbellita, veder passare in perpetuo la gloria d'Italia e il trionfo di Roma”. - Teramo era già uscita dall’asserragliamento medioevale. E difatti nella “terra vecchia”, che tendeva ad uniformarsi all'ampiezza e alla regolarità della nuova, si manifestò il bisogno di uscire dalle strettezze medioevali con l’abbattere anzitutto le porte interne le quali erano servite di seconda e terza linea di difesa. Il Muzii (Dial. II,2) ricorda la Porta di S. Francesco e l’altra d'estremo rifugio nella Piazza del Mercato, la quale si poteva chiudere con tre portoni. Nel 1817 fu raddrizzato ed allargato il Trivio tra le case Urbani e Savini restando così abbattute le ultime tracce dell'antica porta interna di S. Francesco, che serviva ad asserragliare l’attuale largo di S. Antonio. Naturale collegamento tra la terra vecchia e la terra nova era infine la Piazza Maggiore, detta volgarmente piazza di sopra, e per vario tempo anche Piazza dell’Olmo, per un olmo che stava davanti al palazzo già Rozzi e così grande che tre persone con le loro braccia non avrebbero potuto cingerlo.

Un certo risveglio edilizio si ebbe ai principi del secolo passato, sotto il governo borbonico, per opera di alcuni buoni Intendenti, come si chiamavano allora i Prefetti del Regno, e specialmente del comm. Bonaventura Palamolla (1831-1837) e del marchese Statella di Spaccaforno (1837-1842). Ci viene in aiuto a questo punto un raro opuscolo pubblicato in Teramo nel 1890 dal patriotta teramano senatore Vincenzo Irelli (1805-1895) ed intitolato: Breve cronaca dei miglioramenti edilizi e commerciali succedutisi nella città di Teramo nel percorso del secolo che volge (Teramo, Scalpelli, 1890).

Opere davvero encomiabili di quell'epoca sono la creazione dell'Orto Botanico fuori San Giorgio con la Casina della Società Economica del 1826, la sistemazione della circonvallazione sud, con le alte e robuste scarpate che la sostengono, il riempimento del fossato fuori Porta S. Giorgio, e il viale a principio della. strada per Ascoli iniziato nel 1826. Poco appresso si inaugurava nel 1836 il Palazzo della Intendenza, oggi Prefettura, su disegno del celebre architetto teramano Carlo Forti, degno prosecutore di quest'arte nobilissima nella patria di Eugenio Michitelli che tanto vi si era segnalato nel secolo decimottavo. Dallo stesso architetto veniva sovraelevato nel 1849 e sistemato in tutta la facciata il Real Collegio. Due edifici che cominciarono a dare aria cittadina al Corso di Teramo.

Ed anche qualche strada secondaria si andava nobilitando per nuove costruzioni, specie quella che oggi si chiama Via Delfico, appunto perchè vi sorse, l’imponente palazzo di quella famiglia patrizia, con l’ampio scalone in stile Impero, palazzo iniziato negli ultimi anni del secolo decimottavo e compiuto assai più tardi nel 1847 dall'ingegnere Quintiliani. Il valentissimo architetto Forti gettava infine il magnifico Ponte di S. Ferdinando, oggi Vitt. Em. II, sul Vezzola, dalla parte di mare, opera colossale della quale si pose la prima pietra con discorso inaugurale di Melchiorre Delfico ai 24 luglio 1833 e che fu` compiuta soltanto nel 1847. Il progetto di questo lavoro era stato esaminato ed approvato dal Re stesso in persona nella sua venuta a Teramo nel luglio 1832. Pare però che l’impressione provata da Ferdinando II sullo stato edilizio di Teramo non fosse molto favorevole, se è vero quel che si racconta, che cioè al ritorno, ricordandosi dell'erigendo ponte sull'arido Vezzola e dell'aspetto umile delle case cittadine, sovvenendosi anche del Palazzo Vescovile, il solo che avesse allora, come tuttora, un portone alto, dicesse: “Agge viste: fiume senza puonte, e puonte senza fiume, case senza; purtuone e purtuone senza case.

Ben altri problemi, del resto, che quelli estetici urgevano a quei tempi ed assillavano i patrii reggitori. Basta pensare che soltanto nel 1837, dopo una fiera epidemia colerica, si potè metter mano finalmente alla costruzione del Camposanto. Fino ad allora si era usato di seppellire i morti nelle chiese. La città era allacciata ai paesi vicini da semplici vie mulattiere. Fu soltanto nel 1814 che, trovandosi Gioachino Murat a Giulianova, per una breve sosta, dopo la battaglia di Tolentino, gli fu strappato il decreto della strada Giulianova-Teramo, decreto dovuto poi rispettare coma un fatto compiuto, giusta gli obblighi del trattato di Vienna, nella restaurazione dei Borboni. L'architetto Carlo Forti disegnò la percorrenza e l’andamento di quella via, al cui completamento si provvide con incredibile lentezza. Ben quarant'anni occorsero per veder terminata una strada che oggi si percorre in mezz’ora d’automobile e che era allora, com'è pure adesso, e sarà sempre, di vitale importanza pel Capoluogo.

Devesi ascrivere a questo periodo la perdita che fece Teramo delle sue caratteristiche impronte medioevali. Il piccone demolitore infierì implacabilmente contro i vecchi edifici, abbattè le porte per le quali s'entrava in città, diroccò le torri gentilizie, spezzò gli stemmi, asportò sinanche le artistiche pietre tombali delle chiese, distrusse i pomerii, agguagliò al suolo il doppio giro di mura e i bastioni dei quali l'ultimo misero avanzo, a Porta Reale, resta ancora a testimoniare malinconicamente di una bellezza per sempre scomparsa. Teramo, la città regia, si tolse la corona e gli altri segni dell’antica nobiltà.

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IX - Il progresso edilizio teramano dall'epoca del Risorgimento all'era del Fascismo

Il primo vero impulso urbanistico si ebbe a Teramo soltanto dopo il 1860, perchè anche qui si verificò una legge ormai riconosciuta, che cioè lo spirito urbanistico si ridesta immancabilmente all’indomani d’ogni buon mutamento di regime.

Da allora, per le iniziative del Municipio e del Governo, per lo slancio dei cittadini e la partecipazione entusiastica della classe operaia, si manifestò un risorgimento edilizio che culminò nel 1888, l'anno memorando della Esposizione Provinciale.

Cooperarono a questo movimento buoni architetti, degni seguaci di Carlo Forti, ossia Enrico Badia, Nicola Mezucelli, Giuseppe Lupi, Pietro e Gaetano Quintiliani, ai quali seguirono ai giorni nostri Nicola Palombieri, Michele Passeri, Ernesto Narcisi, Giuseppe Marcozzi, Carlo Pompetti, Alfonso De Albentiis, Pio Ferretti ed altri che saranno via via ricordati al loro luogo.

Sono opere di questo periodo, e quasi tutte nella “terra nova”, la livellazione e ripulitura della Piazza Grande con l’interramento delle fosse del grano, le quali vi si scorgevano in buon numero nelle loro inquadrature di mattoni, come nell'ultimo dei villaggi; il Teatro Comunale (architetti Badia e Mezucelli) del 1868, il Palazzo dei Tribunati (architetto Narcisi) del 1881, la Villa Municipale del giardiniere bolognese Giovanni Costa, del 1888, su disegno dell'architetto Napoleone Minelli.

In quello stesso anno 1888, che rimase memorando per tanto fervore di opere, furono costruite le Case Operaie nel quartiere di S. Stefano (arch. Palombieri) e fu inaugurato il Palazzo dell’Esposizione, oggi sede dell'Amministrazione Provinciale. Pure in quell'anno si iniziò l'abbattimento dei portici bassi tra la Piazza Maggiore e il fianco destro del Corso San Giorgio dandosi, poco dopo, principio all'imponente palazzata, con l’ampia porticato sottostante (arch. Pompetti). E intanto già da quattro anni s'era inaugurata la ferrovia Teramo-Giulianova ed era stata costruita la stazione attorno alla quale doveva sorgere un nuovo sobborgo.

Particolari benemerenze si acquistarono in questo periodo sotto il punto di vista edilizio i vari Sindaci del nuovo Regno, il senatore Irelli, Augusto Muzii, Emidio Cerulli, Settimio e Berardo Costantini.

Rallentò in seguito questo movimento, ma per riprendere vigore tra il 1900 e il 1914, quando fu allargato sotto l'amministrazione Berardo Cerulli il Corso del Trivio, sul quale il patrizio teramano Muzio Muzii rifaceva in vago stile moderno l'avito Palazzo Muzii (arch. Pilotti) e i fratelli Giuseppe e Serafino Mancini, sul Corso S. Giorgio, trasformavano la loro antica casa secentesca nell'attuale Palazzo Mancini (arch. Giuseppe Marcozzi). Si costruivano poi nel 1912 il Teatro Apollo (arch. Ovidio Bartoli) e il Palazzo della Camera di Commercio, oggi R. Scuola Industriale (arch. Ernesto Narcisi). Si inaugurava nel 1914, fuori S. Giorgio, il Tecnomasio (arch. Michele Passeri) sotto il sindacato di Luigi Paris, che nel 1900 aveva dotata Teramo di conduttura d'acqua potabile e di illuminazione elettrica, opere queste di grande importanza che conferirono finalmente aspetto di modernità alla nostra Teramo, e diedero al suo progresso un impulso risolutivo. Infine, nel 1915, prima della entrata dell'Italia, nel conflitto mondiale, era già completata la Caserma d'Artiglieria, miracolo di costruzione, per la rapidità con la quale fu eseguita.

La guerra arrestò questo progresso, ma l’avvento del Fascismo gli diede nuovo impulso e vigore. In regime fascista furono i bravi e buoni operai teramani a dare il segno del risveglio. Nel 1923 venivano inaugurate dalla Fratellanza Artigiana, che le aveva promosse, le Nuove Case Operaie al Piano del Vescovo, alla presenza di S. E. l’on. Acerbo. Nel 1924 la Banca d'Italia funzionava già nel nuovo palazzo in Via Carducci, nuova ed ampia arteria della città, ottenutasi con l’arretramento dell’Orto Delfico. S'inaugurava il 4 ottobre 1926, giorno di San Francesco, il Palazzetto del Credito Abruzzese (arch. De Albentiis). Seguivano nel 1928 l’inaugurazione, presenziata da Carlo Del Croix, della Casa del Mutilato (arch. Ferretti) e il 7 ottobre 1929 quella del Palazzo delle Poste (arch. Pilotti). L'anno nono dell'Era Fascista, ossia il 1931, vide il maggior numero d'inaugurazioni: ai 29 di marzo le Case d'abitazione pei Mutilati (arch. Elia Di Giuseppe), ai 10 di maggio il nuovo Ospedale Chirurgico, con intervento di S. E. l’On. Acerbo, ai 28 di ottobre il nuovo Edificio Scolastico Urbano fuori Porta Reale (arch. Aldo Boldrini). In questi due ultimi anni la città ha visto completati il Palazzo del R. Liceo-Convitto (arch. Pilotti) e la Casa del Balilla con l’annesso campo sportivo. Sono imminenti le inaugurazioni delle Case degl'Impiegati fuori S. Giorgio e dell'Ospedale Sanatoriale a Villa Mosca. Sono in costruzione il nuovo palazzo dell'Istituto Magistrale (architetti Cardellini e Montani) e del Banco di Napoli.

Ed anche la città vecchia s'ampliava ed abbelliva, coi nuovi lavori di sistemazione del Corso Trivio e con i Portici Savini di elegante stile medioevale. Infine, sotto la prima amministrazione fascista dell’avv. Nanni, il Municipio aveva provveduto alla pavimentazione in asfalto di tutto il corso e delle due piazze, aggiungendo comodità, grazia e decoro alla città.

Nota caratteristica del progresso edilizio di questi ultimi tempi è il fatto che si sono incominciati a costruire dalle fondamenta i palazzi occorrenti per le scuole e pei pubblici uffici, mentre precedentemente, data la povertà dei bilanci dello Stato e degli enti locali, si utilizzavano a tale scopo, rabberciandoli alla meglio, gli antichi conventi. In vecchi conventi si trovan tuttora il Distretto Militare (Minori Osservanti), l’Intendenza di Finanza (Conventuali Francescani), la Caserma dei RR. CC. (Carmelitani), il Magazzino Militare (Domenicani), le s Carceri (Agostiniani), il Collegio Nazionale e la la Biblioteca Civica (Benedettini a San Matteo), parte delle Scuole Urbane (Benedettine a San Giovanni). È sperabile che almeno qualcuno di questi istituti ed uffici trovi presto ad allogarsi in più spi rabil aere.

Teramo ha dunque seguita nello sviluppo edilizio la legge storica comune alle altre città, cioè la legge di risurrezione all'avvento di ogni buon regime. Ma un’altra legge si potrebbe dire che abbia pure seguita, di carattere puramente geografico, la legge enunciata da Eliseo Reclus nella sua Geografia Universale, quella dell'avanzamento verso occidente. Il Reclus attribuisce questo fenomeno che si riscontra in molte città europee ad un fattore climatico: al bisogno cioè di beneficiarsi delle migliori correnti atmosferiche che spirano da occidente. Ma non esclude altri fattori che sarebbero d'ordine topografico ed economico. Nel caso di Teramo l’avanzamento ad occidente si potrebbe spiegare col maggior numero di scali provenienti dalla montagna, che è la zona la quale maggiormente alimenta la città e col fatto anche che da quella parte il terreno è ora innestato alla plaga collinosa senza alcuna linea di interruzione.

Infatti degli undici sobborghi o rioni che si sono venuti formando nella terra di fuori, in quest'ultimo cinquantennio, soltanto quelli posti ad occidente (Castello, Viale dei Tigli, Rione delle Querce, Madonna della Cona, Terracalata) hanno avuto più vigoroso impulso, mentre lento è apparso, nonostante la presenza della stazione ferroviaria, lo sviluppo dei rimanenti sei rioni (Orto Agrario, Ponte a Catene, Piano del Vescovo, Stazione, Acquaviva, Cartecchia). Nel piano regolatore teramano dovranno essere studiati attentamente i problemi relativi a questi ultimi suburbi, tenendo presente la necessità di risanarne alcuni dal lato igienico (Ponte a Catene ed Acquaviva) e di favorire lo sviluppo di quello della stazione, dove vi sono già gli elementi per la formazione di un centro industriale.

A percorrere questa rassegna del nostro progresso edilizio, il lettore lontano potrebbe farsene un concetto troppo elevato. É bene confessare a questo punto che gli sforzi sinora fatti non hanno portato a grandi risultati. Mancando a Teramo una tradizione edilizia, e non potendosi esemplare i nuovi edifici sui modelli troppo modesti di quelli medioevali, è venuto a mancare alle costruzioni moderne un tipo che potesse armonizzarle. La mancanza di buona pietra da costruzione ha destituito di ogni monumentalità la nuova edilizia. I criteri di economia nel restauro o nel rifacimento degli edifici pri vati (molte case, anche sul Corso, hanno i piani di altezza sproporzionata a quello terraneo, perchè si vollero conservare gli antichi bassi), gravi errori di ubicazione e di impostazione di edifici nuovi anche importanti, hanno fatto apparire meno evidente il risultato degli sforzi compiuti. Non si è avuto mai il coraggio in tanti anni di addivenire ad una espropriazione per utilità pubblica. Per questo motivo ed anche per ostacoli e difficoltà contingenti che bisognava saper superare, quasi tutti i nuovi edifici sono stati ubicati in strade secondarie, se non addirittura in zone sconvolte, con complicazione, anzi che con semplificazione, dei problemi di viabilità e di edilizia. Il Corso di Teramo è rimasto presso a poco quel che era trent'anni or sono ed al forestiero, che non uscisse da esso, non apparirebbe quanto di bello e di nuovo si è aggiunto. Non si è riflettuto poi che se la città è facilmente percorribile e visibile da un capo all'altro dei due corsi, non lo è altrettanto trasversalmente ed invece di abolire gli sbarramenti se ne è prodotto qualche altro. Per la mancanza di rettifili trasversali in nessun punto è consentito di abbracciare con lo sguardo la città in tutta la sua larghezza, cosicchè essa appare immiserita in una angustia che le poteva essere risparmiata. Tuttavia, non ostante questi difetti, Teramo si presenta gaia, luminosa, ariosa e ridente e al visitatore fa migliore impressione di altre città dove nelle troppo severe facciate degli antichi palagi il travertino piange le sue eterne lagrime.

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X. ‑ Una questione di umanità, che è anche di bellezza e di decoro

Prima di passare alla trattazione di quella che si potrebbe dire la parte artistica del piano regolatore è doveroso soffermarsi su di un argomento, che, come dimostreremo, non sconfina dal compito che ci è stato assegnato: la questione delle case di abitazione per i1 popolo. Ventitrè anni fa, quando nel 1910 si era sotto le minacce di una infezione colerica, fu costituito anche qui a Teramo un “Comitato di vigilanza per la salute pubblica”, il quale, compiuta una rigorosa inchiesta, pose nel dovuto rilievo le condizioni in cui versano tuttora, per quel che si riferisce agli alloggi, le classi meno abbienti della nostra popolazione.

Da quella dettagliata relazione che rimase, manco a dirlo, sepolta negli archivi, riportiamo questo breve brano descrittivo interessante senza dubbio anche sotto il punto di vista edilizio: “La povera gente abita nei fondaci, ossia nei bassi, che sono locali umidi, al di sotto qualche volta del livello stradale, a mala pena utilizzabili per legnaie o per cantine, e dove pur tuttavia si ricoverano famiglie composte ben più che di due persone. Questi miserandi abituri, senza luce, senz'aria, senza camini, senza impianto d'acqua potabile, senza acquai e senza convoglio degli umani rifiuti, senz'altra apertura che la porta d'ingresso, sono abitati, in mancanza di meglio, anche da buoni operai, che fanno talvolta miracoli d'industria per tener bene pulita e assestata la loro stamberga, dove una parete fa da cucina, un'altra da camera da letto, uná terza da laboratorio. In queste cieche caverne uno stesso letto accoglie talvolta tutti i componenti la famiglia. E dormono nella stessa stanza dove il giorno si lavora, si cucina, si sta a desinare.

Durante la stagione estiva quella gente si riversa per quasi tutta la giornata sulla strada, che diventa così un'appendice delle loro abitazioni. Sulla strada qualche uomo porta gli apparecchi e i ferri del mestiere, le donne lavorano o s'accapigliano con grandi schiamazzi, i bambini ruzzano, voltolandosi sul selciato. Sono esposti così a tutte le infezioni a tutti i contagi e sono minati tanto nel fisico che nel morale”.

Occorre dunque un'opera di risanamento ed essa entra nel quadro delle più impellenti urgenze edilizie. Dal 1910 ad oggi qualche cosa si è fatta al riguardo. La “Fratellanza Artigiana” costruì nel 1923 un nuovo caseggiato operaio al Piano del Vescovo. Le migliorate condizioni economiche delle classi lavoratrici, le provvidenze del Regime, hanno elevato il tono di vita di alcune famiglie di operai e consentito loro migliori abitazioni. La sollecitudine dell'attuale Amministrazione Comunale ha concesso a varie famiglie povere di abitare a prezzi modestissimi, se non a dirittura gratuitamente, in alcuni locali dell'ex Convento di S. Giovanni e nel quartiere dell'Orto Agrario. Ma la gran massa della povera gente vive ancora nelle stesse condizioni del 1910, ed anche se ne avesse i mezzi finanziari, non troverebbe ove meglio allogarsi per la crisi permanente degli alloggi.

Un siffatto stato di cose è ormai ora che sia eliminato in senso totalitario, per ragioni di umanità e di pubblico decoro. Il gruppo cui è affidato lo studio di tale questione farà al riguardo le sue proposte. Non per invadere il campo altrui ci siamo trattenuti su questo argomento, ma perchè siamo persuasi che, sotto qualche punto di vista, rientra nel compito assegnato a questa sotto commissione. Perchè, se esso è quello di prospettare le aspirazioni estetiche e la bellezza avvenire della città nostra, quale bellezza più degna, più pura di una città liberata dalle abitazioni malsane e dai viluppi delle zone più antiquate e antigieniche e restituita interamente al sorriso del sole, agli aliti della sanità? Non releghiamo la nostra classe operaia in quartieri fuori all'abitato. Sistema che mira a ripristinare qualche cosa che somiglia al ghetto di ormai lontana e aborrita memoria. I nostri operai sono artigiani, più che braccianti o lavoratori d'officine. Teniamoli al nostro fianco, con le loro botteghe ed anche con le loro abitazioni. In una città in cui anche pel corso ci sono ancora molte case ad un solo piano, basterebbe sopraelevarne poco più di un centinaro per risolvere la questione degli alloggi. E i giardini e gli orti che sono annessi in così gran numero alle case signorili non teniamoli più chiusi con muri di cinta al par di conventi o di cimiteri. Lasciamo che, sia pure attraverso i cancelli, anche il popolo si abbia in ogni strada la sua visione di verde. L'estetica di una città non è fatta soltanto di grazie monumentali, ma di civiltà, di sanità, di bellezza morale.

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XI. ‑ La sistemazione del centro cittadino e l’isolamento degli edifici monumentali

La piazza inferiore costituì sin dal medioevo la città-centro, la città degli uffici e del commercio. Quivi il palazzo vescovile con la Cattedrale, quivi la loggia comunale e il parlamento, quivi il mercato. La piazza superiore, che in seguito vi si aggiunse, non ebbe da principio importanza cittadinesca. Fu il campo vaccino di Teramo e tale era sino alla fine del quattrocento quando il Campano, parlando delle tre piazze che circondavano il palazzo vesco vile, la chiama forum primum in quo animalia veneunt. Però oggi lo sviluppo della “terranova” ha portato la piazza superiore a formare un solo grande centro cittadinesco con l’inferiore. La sistemazione di questo centro è intimamente legata al restauro ed all'isolamento degli edifici monumentali che vi campeggiano, con le loro moli secolari.

Altri monumenti medioevali teramani, lontani dal centro, come. la casetta col famoso motto A Lo par lare agi mesura a Porta Romana e il Chiostro di S. Giovanni richiedono urgenti restauri, ma per essi sono già in corso pratiche bene avviate fra il Comune e la Soprintendenza dei Monumenti. La Chiesa di S. Domenico a Porta Romana è stata munificamente restaurata dal Comm. Francesco Savini e solennemente riaperta al pubblico il 17 maggio 1931. Sono edifici questi che non destano preoccupazioni nel piano regolatore, perchè situati in punti nei quali non si prevedono modificazioni.

Il problema artistico dunque è semplificato dal fatto che i monumenti da prendersi in considerazione si trovano tutti riuniti nel centro. Essi sono: la Loggia Comunale, l’Episcopio, il Duomo.

Del Palazzo Comunale si hanno notizie sin dal secolo decimoquinto, quando, come ha dimostrato il Savini (Com. Teram. XVIII, 7), era costituito di tre parti: la loggia inferiore, che accoglieva il parla mento; la sala terrena, addetta alle sentenze; e la sala superiore, ove adunavasi il magistrato col giudice ed il consiglio. Rifacimenti subìti da questo edificio, una prima volta nel 1514 (Muzii, Dial. 3.) e da ultimo più radicalmente e sciaguratamente nel 1857, ne hanno distrutta completamente l’eleganza primitiva. Urgenze d’arrobustamento consigliarono di incamiciare con l'attuale soprastruzione a mattoni di pessimo gusto ottocentesco lo svelto edificio del quattrocento tutto in travertino e agli antichi archi acuti si sovrapposero, nel piano inferiore, delle arcate a tutto sesto e nel superiore finestroni e balconate nello stile sopra detto. Ne risultò quel mostruoso pachiderma a tre zampe che ognuno può vedere. Tuttavia la loggia antica, che serve oggi al mercato del grano, si può ancora facilmente individuare e recentemente furono messi in evidenza i graziosi ornati in terra cotta che ne orlavano gli archi a sesto acuto sul fronte della Piazza del Mercato. La necessità di abbandonare la vecchia sede comunale divenuta impari ai cresciuti servizi, per costruirla più ampia altrove, nella Piazza Maggiore, ha fatto sorgere il desiderio di veder isolato e ripristinato il palazzo del Comune medioevale.

Ma sotto la moderna incamiciatura, l’antica costruzione riapparirà in condizioni di conservazione e di statica tutt’altro che confortanti. Più che ad un restauro si dovrà provvedere, e con quella fedeltà che sarà possibile, ad un paziente rifacimento.

In condizioni analoghe trovasi oggi il Palazzo Vescovile, la cui primitiva costruzione risale al secolo decimoterzo. Anch'esso attraverso i vari raffazzonamenti ha perduta l’eleganza primitiva e lo si vede oggi poggiare fra le due piazze come un tozzo parallelipipedo impesantito dal barocco delle decorazioni. Sarebbe certamente opportuno il restaurarlo, specialmente col rifarvi le quattro torrette terminali ai quattro cantoni. Lo vedremmo allora come lo vide il Campano, e come si vede tuttora in una antica stampa della “Delfico”, in arcis modum, a foggia cioè di turrito castello, con cimature di merli guelfi, con loggiato corrente a pianterreno tutto all'intorno e graziose loggette aperte allo interno e all’esterno del piano superiore. Ma sono problemi, questi della Loggia Comunale e del Palazzo Vescovile, che s’imporrano in un secondo tempo. In prima linea si trova ora quello dell'isolamento del Duomo, recentemente ripristinato in tutto l’interno sotto li vescovado di Mons. Settimio Quadraroli e di S. E. Mons. Antonio Micozzi dal compianto architetto Pio Ferretti.

È attualmente il problema edilizio che più appassiona la cittadinanza teramana questo dell'isolamento del Duomo. Problema annoso, e nello stesso tempo assai complesso, che le generazioni passate centemplarono, senza peraltro risolversi ad affrontarlo, ma che ora s'avvia ad una certa soluzione, imposta dalle nuove esigenze della viabilità e dei tempi mutati. Problema di non lieve difficoltà di attuazione, perchè non si tratta di isolare un limitato corpo di fabbrica, ma tre edifici di grande mole: il tempio guidiano del secolo decimosecondo prospiciente sulla piazza inferiore, il tempio arcioniano del secolo decimoquarto, collegato al precedente, ma prospiciente sulla piazza superiore, e il grandioso campanile che s’erge sul fianco settentrionale dei due suddetti edifici e quasi nel punto in cui essi s'innestano. Un insieme dunque di monumenti che, nel loro perimetro esterno, misurano una lunghezza di circa trecento metri.

Lungo questo perimetro si allinea tutta una serie continuata di modeste casette ad un solo piano, con relative botteghe, fattevi costruire mano mano dagli antichi vescovi allo scopo di costituire una rendita al Capitolo Aprutino. Cominciò il vescovo Pietro Di Valle nel 1361 ad addossare le prime case sul fianco settentrionale nella piazza inferiore ed una piccola iscrizione dell'epoca ricorda questo fatto ed anche lo scopo per cui fu compiuto. In una di queste umili casette, che nelle cornici delle finestre, nella foggia delle botteghe, serbano ancora tracce della loro architettura trecentesca, nacque ai 24 di maggio 1825 Giannina Milli. L'esempio del Di Valle fu pur troppo imitato dai suoi successori, di tal che a poco a poco tutto il Duomo rimase imprigionato in una cinta di modeste casette che, per quanto rimesse a nuovo alla fine del settecento da Monsignor Luigi Pirelli, costituirono e costituiscono tuttora una cintura assai meschina ed opprimente del vetusto monumento.

Fu così che attorno al Duomo teramano si svolse, come si svolge ancor oggi, il commercio cittadino. Sono infatti ben 27 le botteghe che si susseguono lungo i tre lati che han subito siffatti addossamenti, mentre il quarto, ossia il lato meridionale, è rimasto libero, ma invisibile al pubblico, perchè chiuso fra gli orti e i cortili delle vecchie Scuole Elementari e del Seminario Diocesano.

L'idea di liberare il Duomo da questa cintura che, per quanto bassa, ne occulta forse le parti migliori e non ci permette di vederlo in tutta la imponenza e solennità delle sue linee, non è nuova. Essa risponde ad un antico desiderio, ad un sogno da lungo tempo accarezzato della cittadinanza teramana. Nell'archivio vecchio comunale vi devono essere non pochi precedenti di tale questione. E venticinque anni fa, nel 1908, ci fu un momento che parve avviata ad una pronta soluzione. Un assessore comunale, il dott. Tommaso Pirocchi, ne fece oggetto d'una mozione al Consiglio. E l’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti, il quale risiedeva allora a Perugia, si offriva a mezzo dell'architetto Viviani di preparare un progetto di sistemazione del centro della città.

Ma i tempi non erano maturi. La Giunta si perdette in discussioni bizantine, il pubblico rimase indifferente. Spettava all'era nostra il deliberato e fermo proposito di attuare l’imponente programma. Vi hanno concorso certamente le nuove esigenze del transito, il bisogno di scongestionare il centro cittadino, il senso estetico ormai diffuso anche nel popolo minuto.

Ma senza dubbio il miracolo è dovuto allo spirito che anima le nuove generazioni, al coraggio che sanno dimostrare e alle responsabilità che sanno assumersi le Amministrazioni Fasciste. La Commissione per il Piano Regolatore, la Commissione Edile Municipale, l’Ufficio Tecnico Comunale, il Provveditorato Regionale per le Opere pubbliche, la R. Soprintendenza dei Monumenti hanno già preso in considerazione questa iniziativa, per la quale l’on. Podestà comm. dott. Vincenzo Savini ha lanciato al pubblico un nobilissimo manifesto e si è costituito un Comitato.

Il pubblico non è più indifferente, come una volta, a tale questione e ne reclama anzi calorosamente la soluzione. È confortante constatare che anche la stampa cittadina fa spontanea eco a questa aspirazione. I problemi edilizi sono frequentemente trattati nei fogli locali. Il giornale fascista Il Solco, il settimanale cattolico L'Araldo Abruzzese e i solerti corrispondenti dei quotidiani ne hanno dato frequenti ed abbondanti notizie. Nel 1933 il pubblicista Giovanni Fabbri se ne occupava in una lunga serie di articoli sulla sua Italia Centrale, contribuendo ad accrescere la veramente ancor troppo esigua letteratura edilizia teramana. Giovani ingegneri si son messi spontaneamente all'opera per gli studi preparatori. Un complesso di iniziative, che non tarderanno ad essere disciplinate già ferve attorno a questo movimento che incontra le generali simpatie.

Il magnifico volume del nostro storico Francesco Savini sul “Duomo di Teramo” è oggi uno dei più compulsati. Si suppone che nei fianchi ora coperti del nostro Duomo si nascondano egregie opere d'arte. Di una di esse lo storico Muzio Muzii del cinquecento ci dà una minuta descrizione nella sua opera che è fondamentale per la storia teramana (Dial. IIl, 6).

Bisognerà procedere però con ponderazione. Il problema che non è soltanto estetico, ma investe anche le esigenze di transito e di commercio del centro cittadino, va studiato minutamente. Al transito grande vantaggio apporteranno l’allargamento della Via del Vescovado e la nuova strada, già progettata dal compianto ing. Ernesto Narcisi, la quale costeggerebbe il lato meridionale del Duomo, mettendo in comunicazione le due piazze.

Il problema poi, per quello che importa di spesa, (si tratta di espropriare ventisette botteghe, le quali quasi tutte sono state ricomprate in tempi non lontani dai relativi esercenti e di espropriare anche i piani superiori ad uso d'abitazione) non può essere affrontato in pieno. Bisognerà regolarne l’attuazione in più tempi.

Le difficoltà ognora crescenti nel transito specialmente automobilistico di Via del Vescovado e il fatto che con l’arretramento del Palazzo dell'Economia a principio del Corso, la dissimetria fra le due linee sarebbe troppo flagrante, imporranno in un primo tempo il taglio degli edifici che fronteggiano la Via del Vescovado e basterà questo per isolare e mettere in evidenza tutta la torre sino alle fondamenta, dalla parte di S. Giorgio. La necessità di ripristinare la facciata occidentale del Duomo sulla Piazza Maggiore, e di aprire la strada lungo il fianco meridionale determineranno in seguito altri momenti di quest'opera d'isolamento. Nell'ultimo tratto, quello sulla Piazza Inferiore, sarà doloroso veder cadere l’ultima bottega o pendica medioevale e asportata la lapide della casa ove nacque Giannina Milli. L'ala del ricordo s'alza mestamente sulle macerie degli edifici abbattuti. Ma, come disse Pericle nell'orazione pei Greci morti in guerra: la memoria degli uomini e dei fatti illustri non è nelle lapidi e nei monumenti. É nell'anima del popolo.

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XII. - Il Foro della nuova Interamnia

Quando, in un giorno che auguriamo non lontano, il Duomo sarà interamente isolato, bisognerà pur provvedere a ridar luogo, sulle piazze cosi ampliate, alle botteghe abbattute. Ventisette botteghe abbiamo contate lungo tre lati della cattedrale: sulla Piazza inferiore o del Mercato, sulla Via del Vescovado e la Piazza superiore. Ma molte sarebbero di più se si addivenisse anche all'abbattimento della casina attigua alla Loggia Municipale e al ripristino del Palazzo Vescovile.

Se nel piano regolatore non si tenesse conto di questa necessità, si potrebbe dire che nel caso nostro isolare equivale a desolare. Tre maestosi monumenti medioevali ripristinati, isolati, campeggianti fra due piazze: uno spettacolo senza dubbio imponente. Ma sarebbe desolante il fare attorno a questi monumenti il vuoto perfetto, il deserto, dopo tanti secoli che vi fervè la vita.

Nè è da pensare di trasportare altrove il centro commerciale cittadino. Si potranno creare a Teramo altri centri: un centro scolastico nei paraggi del nuovo Real Collegio, un centro ospedaliero attorno al nuovo Ospedale Chirurgico, un centro industriale alla stazione ferroviaria. Ma i centri commerciali non si creano artificialmente. Sono e saranno sempre quelli che ragioni storiche e topografiche e le istintive preferenze del popolo hanno stabilito attraverso i secoli.

Le due piazze, quella di sopra e quella di sotto, per indicarle coi nomi famigliari ai Teramani, sono destinate a costituire in perpetuo la città-centro del mercato, del commercio, degli uffici. É necessario dunque che tutte le botteghe che dovranno scomparire dalle piazze suddette trovino modo di ricollocarsi, e in maggior numero, sulle piazze medesime. Come riuscire a tale intento?

In fatto di assestamenti edilizi possono verificarsi delle determinanti che conducono a soluzioni impreviste. Una linea nuova che si produca può esser decisiva per le sorti di tutto un quartiere, se non della città intera. Nel nostro caso questa linea si troverà nella strada che sarà aperta fra le due piazze, lungo il fianco meridionale della Cattedrale. Quella strada sarà provvidenziale per due ragioni. In primo luogo perchè agevolerà lo smistamento delle folle nei giorni di gran ressa, su di un lato della Piazza Superiore, il quale attualmente è fornito soltanto di due sbocchi, mentre il lato opposto, verso S. Giorgio, ha il privilegio di goderne quattro. In secondo luogo perchè determinerà una linea che sarà fondamentale per l'unificazione perimetrale delle due piazze.

L'unificazione integrale delle due piazze sarà forse difficile ottenerla e, per ragioni storiche, anche poco opportuno desiderarla. Bello è rinnovare il volto di una città. Non altrettanto bello svisarlo interamente. Ma non si andrebbe troppo contro alle tradizioni storiche, se si riuscisse un giorno ad unificare le due piazze almeno alla periferia, abbracciandole nell'ampio quadrilatero che la nuova via sul fianco meridionale del Duomo viene a determinare. Pochi arretramenti, limitati soltanto ai lati meridionale ed orientale della Piazza Inferiore, ci darebbero il quadrilatero lungo il quale si potrebbe prolungare la palazzata già iniziata nella Piazza Superiore, col relativo porticato.

Le nuove costruzioni potrebbero accogliere nei piani superiori gli uffici, le banche e gli altri istituti. Sotto i loggiati potrebbero allinearsi, in numero ben maggiore dell'attuale, i negozi cittadini, con riparo, durante la stagione invernale, che qui a Teramo può durare da ottobre ad aprile, alle genti del contado, le quali sono poi quelle, ricordiamocelo, che danno vita alla città nei giorni di fiera e mercato. Teramo, che fu così ospitale ed accogliente nell'epoca romana con le basiliche del forum d'Interamnia e che nel medioevo, coi numerosi portichetti, si sarebbe detta una Bologna d'Abruzzo in miniatura, tornerebbe ad esercitare per tutto l'agro pretuziano le sue funzioni d’hospitium e di conciliabulum, in stile più rispondente alle esigenze del presente e alle aspirazioni dell'avvenire.

Ma a questo punto si presenta un quesito inquietante: che fare del così detto Arco di Monsignore, ossia del cavalcavia tra la Cattedrale e l’Episcopio? Abbatterlo o conservarlo? Resisterà anche questa volta ai propositi di demolizione? Dopo la scomparsa di tutte le porte, di tutte le mura e di quasi tutte le torri medioevali, vedremo scomparire anche questo cavalcavia, l'unico superstite, dopo l'abbattimento cui assistemmo dell'arco dei Grue? Un cavalcavia non è anch'esso un elemento di grazia, una interruzione di monotonia nell'aspetto pii una città?.

Non è una grande opera d'arte quest'arco a tutto sesto, che sostiene la Cappella Vescovile e il passaggio segreto tra l'episcopio e la cattedrale. Non ha neppure il pregio della vetustà, perchè gli si contano men di ducent'anni di vita, da che l'ottenne dai reggitori del Comune, nel 1738, il vescovo De Rossi. Ma tra le due piazze s'apre come uno scenario, attraverso il quale s'occhieggiano la città vecchia e la città nuova. Se non c'è arte, c'è qualche cosa di equivalente: il pittoresco. Però da che i mezzi di locomozione son divenuti così ingombranti e veloci, sotto quell'arco il transito si è reso difficile e pericoloso. Non abbiamo cuore di condannarlo, ma non sapremmo neppure che suggerire per salvarlo, a meno che non si volesse rinunciare a veder le basi del campanile anche dalla Piazza del Mercato ed aprire nel corpo di fabbrica tra l'Arco di Monsignore e la Cattedrale due archi minori, pari a quelli del porticato vescovile. Potrebbero servire questi due archi minori, se distaccati dal campanile, di passaggio per i pedoni.

Lasciamo ai progettisti e agli amministratori della cosa pubblica il compito di risolver la questione, non senza aver prima loro ricordato che l'Arco di Monsignore potrebbe essere un grande sostegno pel campanile, il quale spiomba di 12 centimetri e che, come risulta dai verbali della Commissione Conservatrice (3 luglio 1909), a detta dell’arch. Viviani, potrebbe pericolare qualora il detto arco si togliesse. E neppure sarà inutile avvertire a tale proposito che un rettilineo tra il Corso S. Giorgio e la Piazza del Mercato non sarà mai possibile ottenerlo, perchè non sono in asse, e che il campanile a sua volta non è in linea nè col fianco superiore nè con quello inferiore del Duomo, perchè innalzato su basi non accordate, chi sa per quale ragione, con i due corpi della cattedrale. In caso di abbattimento dell'arco queste dissimetrie apparirebbero flagranti e bisognerebbe ovviarvi con zone di verde od altri espedienti.

Unicamente per debito di coscienza abbiamo rilevate queste difficoltà, le quali forse ad un più attento esame ed all'atto pratico potrebbero apparire meno preoccupanti. Ed unicamente per amore d’obbiettività abbiamo prospettate le due soluzioni che si presentano nella questione dell'Arco, sapendo che se vi sono molti impazienti di vederlo abbattuto, vi sono pure non pochi che desidererebbero di vederlo , conservato. L'importante per noi è che si ponga mano ai lavori e che i primi scoprimenti incomincino a determinare le direttive che si dovranno seguire. L'importante è che il Foro della nuova Interamnia incominci a delinearsi non più nei tracciati ipotetici di un grafico schematico, ma nelle linee e nelle risultanze reali, sempre più convincenti d'ogni più meditata previsione.

Si comprende che questo che abbiamo tracciato rappresenta il programma massimo della sistemazione del centro cittadino, attuabile in un periodo che non sapremmo neppur determinare. Era però necessario indicarle e fissarle queste linee, affinché non siano disturbate o compromesse dal capriccio degli architetti e degli amministratori futuri. Sono linee che sembrano uscite dal fervore di una fantasia, ma che non tarderanno a determinarsi nella realtà. Riconosciamo che in quanto abbiamo ideato è della passione per questa città che abbiamo tanto amata. Ma non c'è soltanto della speranza, c'è anche della convinzione.

Nel mettere insieme questa esposizione, che principia dall'epoca preromana e guarda infine all'avvenire, ci è sembrato talvolta di narrar le vicende d'un lungo martirio subito attraverso i secoli dalla città nostra, da quando, perduta la grande pace romana, non ebbe più bene e riposo. Quante distruzioni, e dovute unicamente alla mano degli uomini, in una città cui la natura non produsse mai alcun danno! Ma oggi la pace romana è risorta. La fattività costruttiva del popolo romano rinasce in tutta la Nazione. Anche oggi si abbatte, ma per ricostruire. Ed ogni pietra che si aggiunge rimarrà intangibile per l’avvenire. Nell'atmosfera odierna di opere rinnovatrici, i Teramani seguono con vigoria maschia la volontà tenace che viene da Roma. Agli scettici, a coloro che sorridono dell'aspirazione di una piccola città a seguir gli esempi dell’Urbe, rispondiamo che allora l’Italia apparirà veramente grande e bella, quando anche ogni piccolo capoluogo di provincia sarà sano, sarà bello, sarà maestoso, come un quartiere di Roma.

LUIGI SAVORINI

 

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